Il ‘900 narrato da Gombrich (dettagli)
Titolo: Il ‘900 narrato da Gombrich
Descrizione:
Castelnuovo offre un profilo intellettuale di Ernst Gombrich (1909-2001) in occasione della pubblicazione dell’edizione italiana del libro-intervista di Didier Eribon, Il linguaggio delle immagini (Torino, Einaudi, 1994), e della sua raccolta di saggi Argomenti del nostro tempo. Cultura e arte nel XX secolo (Torino, Einaudi, 1994).
Una copia della raccolta di saggi è presente nel fondo librario di Castelnuovo, conservato dalla Biblioteca storica d’Ateneo “Arturo Graf”.
Autore: Enrico Castelnuovo
Fonte: Il Sole 24 Ore, anno 131, n. 21, p. 25
Editore: Il Sole 24 Ore; digitalizzazione: Archivio storico dell'Università di Torino (2024)
Data: 1995-01-22
Gestione dei diritti:
Quest'opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione 4.0 Internazionale
Relazione: Inventario del fondo Enrico Castelnuovo, unità archivistica «Il Sole 24 Ore» (Archivio storico dell'Università di Torino)
Formato: application/pdf
Identificatore: Sole_14
Testo:
«Il Sole 24 Ore» – Domenica 22 gennaio 1995, n. 21, p. 25
Il Popper della critica d’arte. Un grande pensatore a confronto con altri «giganti» del secolo
Il ‘900 narrato da Gombrich
L’antidogmatismo e l’antistoricismo applicati al mondo delle immagini e, in più, alla storia della cultura
di Enrico Castelnuovo
Lo sguardo intenso che filtra dagli occhi socchiusi di Ernst Gombrich, l’occhio rapace, di Henri Cartier-Bresson ci fissano dalle copertine di due libri usciti da Einaudi a distanza di pochi mesi. Quest’insistenza sul vedere non è casuale. Ernst Gombrich, uno dei massimi storici dell’arte del nostro tempo, vi ripropone alcuni dei temi, dei problemi e degli approcci che predilige e offre dati e spunti interessanti per ricostruire la sua vicenda biografica e culturale. Si tratta di un’intervista (Il linguaggio delle Immagini) e di una raccolta di saggi (Argomenti del nostro tempo; Cultura e arte nel XX secolo). L’uno finisce per integrare l’altro; l’intervista è del ‘91, i saggi vanno dal 1974 al 1991 ma appartengono soprattutto agli ultimi anni.
È significativo che uno storico dell’arte sia considerato un pensatore sufficientemente interessante e importante per essere l’oggetto di un libro-intervista. Ciò accade generalmente ai filosofi, agli storici, agli etnologi, agli scienziati, ai politici, agli economisti, ai signori del pensiero, della ricerca e dell’azione, a coloro che vengono considerati dei maitres à penser che possono proporre teorie, modelli, leggi, risposte ai quesiti del nostro tempo, delle chiavi di lettura del mondo, della società, della civiltà in cui viviamo. Non per niente l’autore del dialogo con Gombrich, Didier Eribon, giornalista al «Nouvel Observateur», ha già pubblicato libri-interviste a personaggi universalmente citati, evocati e ricercati, come Claude Lévi-Strauss o Georges Dumézil, e ha scritto due importanti libri su Michel Foucault.
Perché Gombrich è tanto popolare, perché le sue riflessioni suscitano tanto interesse? Per aver abbordato l’arte e la sua storia-temi che affascinano ancora profondamente con un approccio che tiene conto di una quantità di fattori, dalla tecnica alla storia, dalla psicologia della percezione alla fisiologia della visione. In qualche modo per aver capito che il mondo dell’arte è qualcosa di troppo importante per lasciarlo in mano ai soli specialisti.
Intendiamoci Gombrich è uno storico dell’arte e di altissimo livello, ma è capace di imparare da un radiologo qualcosa sui problemi dell’interpretazione delle immagini, è un lettore curioso ed esigente degli scritti dell’etologo Konrad Lorenz, un frequentatore di psicologi della percezione come William Kohler o James J. Gibson, di fisiologi come Richard Gregory, di teorici della comunicazione come Colin Cherry, di linguisti e filosofi della lingua come Roman Jakobson, di pittori come Oskar Kokoschka, di storici delle idee come Georg Boas ed è stato molto marcato dal pensiero e dall’epistemologia dell’amico di molti anni Karl Popper. Ciò ha significato per lui interessarsi a molte discipline solo apparentemente estranee al proprio campo, battere molte strade per fare delle domande e ottenere delle risposte dalle opere, per cercare delle spiegazioni. Ma sentiamo lo stesso Gombrich.
«Una volta su questi temi metodologici, tenni un seminario cui parteciparono parecchi giovani e valenti storici; in questa occasione inventammo una specie di notazione stenografica per questo particolare problema lo chiamammo "tazzologia" perché uno di noi prese una tazza da tè dal tavolo e tentò di elencare tutte le domande che si sarebbero potute fare su quell’oggetto. Tanto per cominciare puoi chiederti di che materiale è fatto: se è di porcellana ti metti subito a pensare all’affascinante storia della sua fabbricazione, a maggior ragione se è di plastica. Se ti chiedi perché abbia un manico, hai bisogno di qualche nozione elementare di fisica per spiegare come il calore si trasmette alle dita. Per spiegare la popolarità del tè come bevanda ritemprante ti occorre la medicina; per raccontare come il tè sia giunto in occidente dalla Cina, la geografia. Per descrivere le piantagioni di tè ti serve la botanica e ci sarebbe da dire qualcosa sulle tragiche conseguenze della trovata inglese di portare i tamil a Ceylon perché lavorassero nelle suddette piantagioni. Sicuramente non sarebbe difficile di tirare in ballo anche l’estetica e la sociologia...».
Un breviario per i Bouvard e i Pécuchet del 20° secolo dunque? Non direi proprio in quanto, conclude Gombrich: «La scelta della domanda da porre sarà sempre e solo nostra. In parte saremo guidati dalla tradizione della ricerca, in parte anche dalla speranza di scoprire qualcosa di nuovo. In queste cose allo storico occorre un po’ di avvedutezza e di fiuto, quel che si dice "avere occhio"».
Le origini e le matrici di queste curiosità si possono individuare bene percorrendo in questi due libri la biografia e l’itinerario culturale di Ernst Gombrich, nel suo svolgersi dall’infanzia viennese in una famiglia ebraica della borghesia colta molto amante della musica, alla fascinazione adolescenziale per gli scritti di Max Dvorak quando ancora al liceo legge Kunstgeschichte als Geistesgeschichte e gli si spalanca dinnanzi agli occhi l’idea che l’arte manifesti e inveri le grandi tendenze spirituali di un determinato momento storico, agli anni universitari dove, compagno di corsi di Otto Kurz, e discepolo del sapientissimo e geniale Julius von Schlosser, si pone i problemi del significato della tradizione e degli schemi utilizzati nell’operare artistico e, rivede i suoi giovanili entusiasmi per Dvorak, che spingevano a stabilire un rapporto tra le tensioni spirituali, la crisi interiore e la produzione artistica dei primi decenni del Cinquecento, nello studio dell’architettura di Giulio Romano a Mantova e nella riflessione sui problemi del manierismo. A Vienna collabora con Ernst Kris, lo storico dell’arte che, convertito da Freud, diventerà un grande analista senza mai abbandonare i problemi di frontiera fra le due discipline, e con Kris si imbarca in una vasta ricerca (rimasta per la massima parte inedita) sulla caricatura come applicazione del motto di spirito – tema carissimo a Freud – alle arti figurative. Monta la minaccia nazista e, prima dell’Anschluss che unirà l’Austria alla Germania, Kris convince Fritz Saxl, allora direttore della Kulturwissenschaftliche Bibliothek Warburg appena trasferita da Amburgo a Londra, di dare a Gombrich l’incarico di occuparsi delle carte del suo fondatore e di pubblicarne gli scritti. Via da Vienna quindi, immediatamente prima della tempesta; dopo pochi anni scoppia la guerra e Gombrich prende a lavorare – come addetto all’ascolto delle trasmissioni tedesche – alla Bbc. Ci resterà sei anni, e questo gli darà modo di perfezionare il suo inglese, dovendo tradurre per otto ore al giorno da una lingua in un’altra, e di interrogarsi sui problemi della comunicazione e dei rapporti tra conoscenza e percezione uditiva. Finita la guerra ritorna al Warburg e in quel clima particolare tutto animato da interessi per la tradizione dell’antico, per la storia della cultura rinascimentale, per i problemi iconografici, riprende a lavorare sugli scritti di Warburg e su problemi rinascimentali in cui la storia dell’arte si univa strettamente alla storia della cultura. E sono gli anni del suo grande exploit editoriale: pubblica per la Phaidon The Story of Art (1950) un rapido, ma meditatissimo profilo della storia dell’arte dall’antichità ai nostri giorni, un racconto destinato a un pubblico molto vasto. L’opera ebbe uno straordinario successo, fu tradotta in tutto il mondo, conobbe un numero enorme di edizioni il libro affascina per la chiarezza, per l’accessibilità e la gradevolezza della scrittura, per il suo modo semplice e concreto di affrontare le opere, i problemi, le scelte che si sono poste agli artisti e ai committenti, per lo sforzo di spiegare quali siano state le cause e le vie dei progressi, delle trasformazioni e dei mutamenti artistici, del perché l’arte abbia una storia.
Gombrich inizia una brillante carriera universitaria. È chiamato a insegnare a Oxford, a Cambridge a Londra, a Harvard, diventa direttore del Warburg Institute, è invitato continuamente a insegnare o dare dei cicli di conferenze negli Stati Uniti e da queste esperienze nasce quel gran libro che è Arte e illusione che riprende le Mellon Lectures tenute a Washington nel 1956. Il sottotitolo ne è Storia della psicologia della invenzione pittorica: si tratta di una storia dello sviluppo della rappresentazione attraverso il rapporto che gli artisti di differenti epoche stabilirono con le regole, gli schemi, le formule e la tradizione e del loro continuo confronto con l’oggetto da dipingere in una dialettica schema-correzione mutuato da quello di esperimento-rettifica e secondo la logica delle situazioni, cari a Karl Popper, per molto tempo – ricorda – preparando queste lezioni frequentò le biblioteche di psicologia alla ricerca di quanto poteva spiegare il percorso e l’evoluzione della rappresentazione pittorica in modo non tautologico o teleologico il risultato fu eccezionale. Ricordo bene come leggendo il libro appena uscito fossi preso da un grande entusiasmo proprio per il modo non usuale, rivelatore mi sembrava, di porre i problemi e di indicare delle soluzioni, un entusiasmo che mi portò a consigliarne vivamente a Einaudi la traduzione italiana, che uscì poi nel 1965. In Italia, allora, al di fuori dell’ambiente degli storici dell’arte e della cultura, Gombrich era relativamente poco conosciuto la Story of Art era stata pubblicata da Mondadori nel 1952 con il titolo Il mondo dell’arte su una carta assai spessa e con una copertina telata con disegni dorati che ne facevano un libro un po’ solenne. Arte e Illusione ebbe un gran successo e da allora data la grande fortuna che Gombrich ha incontrato nel nostro paese anche in un pubblico di non specialisti The Story of Art venne ripubblicata immediatamente dopo da Einaudi sotto il titolo La storia dell’arte raccontata da Ernst Gombrich e conobbe molte edizioni. Un altro volume di grande impegno nato anch’esso da una serie di conferenze (le Wrightman Lectures di New York) fu il Senso dell’Ordine uscito nel ‘79. Il sottotitolo (Studio sulla psicologia dell’arte decorativa) lo accomuna a Arte e Illusione con cui forma in qualche modo un dittico, da una parte i problemi della rappresentazione pittorica, dall’altra quelli della decorazione (un tema che a un discepolo della scuola di Vienna era ben familiare dato il posto che esso occupava nella riflessione di uno dei suoi padri fondatori, Alois Riegl), abbordati sempre dal punto di vista della psicologia della percezione e della sua storia. In fondo questi due libri si sono sviluppati a partire da The Story of Art, propongono, sviluppano e documentano un modo di approfondire e di interrogare sui due versanti la lunga vicenda della produzione artistica, un modo, ancora una volta, di tentare delle spiegazioni: «...Volevo scrivere – è Gombrich che parla – un libro più ambizioso di cui Arte e Illusione e il Senso dell’Ordine non sono in realtà che due frammenti. Un libro generale sull’immagine e sulle sue diverse funzioni». Accanto a questi tre titoli si collocano la biografia di Aby Warburg, quella per cui nel lontano ‘36 era stato chiamato a Londra, che è tra le sue cose più discusse e sollevò sulle colonne del Tls, quando fu pubblicata nel 1970, una epica critica da parte di Edgar Wind, varie raccolte di saggi, di conferenze, di interventi, di articoli e recensioni editi dalla Phaidon e in Italia tutti tranne uno – da Einaudi (Argomenti del nostro tempo è la nona) e molti altri interventi di minor mole, di cui una utilissima e diramata bibliografia è raccolta a cura di Maria Perosino in calce all’intervista testé uscita.
I temi corrispondono bene alla storia intellettuale dell’autore e alle sue amplissime curiosità alle sue esperienze ai suoi incontri dagli studi rinascimentali (raccolti in Norma e Forma, Immagini Simboliche, L’Eredità di Apelle, Antichi maestri, Nuove letture) agli interventi sulla teoria dell’arte e sulla storiografia artistica, ai problemi della psicologia della percezione e della rappresentazione ai rapporti tra arte e psicanalisi alle riflessioni sulla metodologia della storia dell’arte e della storia della cultura (Argomenti del nostro tempo) aperto da uno schizzo autobiografico dell’87 che annuncia alcuni temi dell’intervista del ‘91, ha un accento marcato sul presente sia che si tratti di un problema significativo e addirittura rivelatore dell’arte contemporanea, quella del rapporto tra testi – titoli delle opere, parole e lettere inserite nei quadri e loro funzione – e immagini (Immagine e parola nell’arte del XX secolo), sia di interventi su singoli artisti, disegnatori, pittori, cartoonists, fotografi, quali Kokoschka, il geniale e intrigante Saul Steinberg o Henri Cartier-Bresson, sia di interventi su alcune recenti tendenze della critica.
Nel corso del suo lungo cammino Ernst Gombrich ha avuto molte occasioni di incontri, diretti o indiretti non solo con scienziati, psicologi, filosofi, ma con i suoi colleghi in senso stretto gli storici dell’arte, anche se i dialoghi con i primi occupano più posto e sembrano stargli più a cuore. Ora cosa appare da questi testi quali giudizi sono portati sugli uomini del mestiere? Si è detto di Vienna: accanto a eroi positivi come Schlosser, Kris, Kurz, compare anche Strzygowsky con i suoi corsi sull’arte delle steppe e i suoi interessi non per la grande architettura, le chiese e i palazzi, ma per le costruzioni in legno e per le tende, arrogante e arruffapopolo ma interessante, e l’archeologo Emanuel Loewy il cui libro sull’Imitazione della natura nell’arte greca lo influenzò non poco, poi Londra.
Chi lo attende qui, non di persona ma attraverso il suo sconfinato Nachlass, è Aby Warburg il creatore dell’istituto l’uomo di cui Gombrich avrebbe dovuto riordinare le carte, di cui scriverà una biografia intellettuale e di fronte a cui dimostra sempre gemischte Gefuhle, sentimenti diversi (e contrastanti): «Quando ho visto le carte e le foto sono inorridito. La sua scrittura era difficilissima da decifrare. Ed era un uomo che non gettava mai nulla, c’erano dunque pile e pile di annotazioni, di abbozzi che cominciava e ricominciava senza posa. Era davvero nevrotico. Ma ho fatto ciò che era possibile. Ho anche iniziato a scrivere dei commenti in inglese su un suo progetto intitolato Mnemosyne, per il quale aveva riunito, senza logica apparente, alcune centinaia di fotografie che avrebbero dovuto illustrare la storia dell’arte e della cultura».
Poi ci sono i saggi dell’istituto: «uomini e donne molto eruditi che ne sapevano di più della Grecia e della Roma antica che dell’Inghilterra attuale», e il direttore, il grande Fritz Saxl «un uomo molto occupato e scettico... notevole ma non molto organizzato». Il confronto e il contrasto è serrato con Erwin Panofsky agli occhi di Gombrich l’ultimo rappresentante della «tradizione tedesca della storia dell’arte... che risale alla filosofia hegeliana della storia e a cui piace operare sulla base delle idee di Zeitgeist e di Volksgeist. Questa tradizione postula che tutte le manifestazioni di un’epoca... debbano essere considerate come l’espressione di un’essenza o di uno spirito identico. Di conseguenza ogni epoca è considerata come una totalità in cui tutto è coerente». Panofsky «con tutta la sua intelligenza ed erudizione superiore» era da un lato un hegeliano portato a credere all’esistenza di un comune sentire proprio all’arte gotica, o a quella rinascimentale, e quindi all’esistenza reale di questi stili o di queste categorie, dall’altro un relativista propenso a credere che la prospettiva lineare non fosse che un modo, legittimo al pari di altri, di rappresentare lo spazio e quindi una forma simbolica legata a un’epoca particolare. E non parliamo poi dell’iconologia: il boa constructor, Panofsky, forzava un po’ troppo gli indizi, ma Gombrich ne riconosce la grandezza, l’umana simpatia, la generosità pur notando che se da vivo «era considerato quasi un dio» oggi si ha tendenza a dimenticarlo «tanto che non leggono nemmeno più i suoi libri».
Ma che fare oggi che Panofsky non c’è più che l’antico avversario Hegel, le cui idee Sir Ernst soleva scovare dovunque a tingere di teleologico storicismo tutto l’Ottocento e gran parte del nostro secolo è stato sostituito nella storia delle idee, nella storia dell’arte, nella storia della cultura, dai paradigmi insidiosi del decostruzionismo rampante e del relativismo assoluto, pronti a legittimare tutto e aperti a ogni possibile revisionismo? Gombrich è sempre sulla breccia, più determinato che mai a esplorare il terreno. «Anche perché credo che ne sappiamo ancora molto poco. Tanto che vorrei dire ai miei colleghi che non abbiamo ancora una storia dell’arte».
Didier Eribon-Ernst H. Gombrich, «Il linguaggio delle immagini», Einaudi, Torino 1994, pagg. 202, L. 24.000.
Ernst H. Gombrich, «Argomenti del nostro tempo. Cultura e arte nel XX secolo», Einaudi, Torino 1994, pagg. 260, L. 80.000.
Ernst H. Gombrich in una foto di Jerry Bauer
NOMI CITATI
- Bauer, Jerry
- BBC [British Broadcasting Corporation]
- Boas, Georg
- Cartier-Bresson, Henri
- Cherry, Colin
- Dumézil, Georges
- Dvorak, Max
- Einaudi
- Eribon, Didier
- Foucault, Michel
- Freud, Sigmund
- Gibson, James Jerome
- Gombrich, Ernst
- Gregory, Richard
- Hegel, Georg Wilhelm Friedrich
- Jakobson, Roman
- Kohler, William
- Kokoschka, Oskar
- Kris, Ernst
- Kurz, Otto
- Lévi-Strauss, Claude
- Lorenz, Konrad
- Löwy, Emanuel
- Mondadori
- Nouvel Observateur [Le]
- Panofsky, Erwin
- Perosino, Maria
- Phaidon Press
- Popper, Karl
- Riegl, Alois
- Romano, Giulio
- Saxl, Fritz
- Schlosser, Julius von
- Steinberg, Saul
- Strzygowski, Josef
- TLS [Times Literary Supplement]
- Warburg, Aby
- Wind, Edgar
LUOGHI E ISTITUZIONI CITATI
- Amburgo [Germania]
o Warburg Institute
- Cambridge [Regno Unito]
o Università di Cambridge
- Harvard [Stati Uniti]
o Università di Harvard
- Londra [Regno Unito]
o The Warburg Institute
o Università di Londra
- Mantova
- New York [Stati Uniti]
- Oxford [Regno Unito]
o Università di Oxford
- Vienna [Austria]
- Washington [Stati Uniti]
o National Gallery of Art
Collezione: Il Sole 24 Ore
Citazione: Enrico Castelnuovo, “Il ‘900 narrato da Gombrich,” Enrico Castelnuovo sulla carta stampata. La Stampa e Il Sole 24 Ore, ultimo accesso il 17 dicembre 2024, https://asut.unito.it/castelnuovo/items/show/109.