Il terzo nome del gatto (dettagli)
Titolo: Il terzo nome del gatto
Descrizione: Enrica Pagella intervista Castelnuovo in occasione del settantesimo compleanno: ne ripercorre la carriera, dalle prime pubblicazioni all'ultima raccolta di saggi La cattedrale tascabile. Scritti di storia dell'arte (Sillabe, 2000). L'articolo si sofferma sul suo approccio alla disciplina, in particolare sull'interesse per l'aspetto geografico nella ricerca storico-artistica, per la storia sociale dell'arte e per la figura dell'artista nel medioevo, sul magistero di Roberto Longhi e sulla collaborazione con la casa editrice Einaudi.
Autore: Enrico Castelnuovo, Enrica Pagella
Fonte: Il Giornale dell’Arte, anno 17, n. 178, pp. 32-33
Editore: Il Giornale dell’Arte; digitalizzazione: Archivio storico dell'Università di Torino (2023)
Data: 1999-06-01
Gestione dei diritti:
Quest'opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione 4.0 Internazionale
Relazione: Inventario del fondo Enrico Castelnuovo, unità archivistica «Il Giornale dell'Arte» (Archivio storico dell'Università di Torino)
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Identificatore: GiornaleArte_2
Testo:
«Il Giornale dell’Arte» – Anno 17, n. 178 – Giugno 1999, pp. 32-33
(sezione I documenti)
Enrico Castelnuovo compie 70 anni
Il terzo nome del gatto
«Eliot afferma che ogni gatto ha tre nomi: il primo, quello con cui viene comunemente chiamato, il secondo, più particolare, quello con cui viene distinto dagli altri, il terzo, quello che solo il gatto conosce. È un po’ così anche per le opere d’arte: c’è l’opera che noi oggi conosciamo, quella che hanno conosciuto i suoi contemporanei, e infine quella, per così dire, irraggiungibile, che possiamo intuire solo per approssimazione»
Enrico Castelnuovo ha appena compiuto, il 26 maggio, settant’anni. Mi riceve nel suo studio sul Lungarno a Pisa, dove insegna Storia dell’Arte Medievale alla Scuola Normale Superiore; dalla finestra, poco distante, si vedono le guglie di Santa Maria della Spina con le statue della scuola di Giovanni Pisano.
Professor Castelnuovo, la veduta della Spina ci porta direttamente ai primi momenti della sua carriera di storico dell’arte, ma spero non le dispiacerà se, invece di cominciare con la domanda canonica sugli inizi, partiamo dall’interrogativo che apre il suo libro Arte, industria, rivoluzioni, del 1985: qual è il terzo nome del gatto?
Ah sì, una delle cose di cui sono più fiero è la storia del gatto, che venne fuori dalla lettura dell’Old Possum Book of Practical Cats di T.S. Eliot, il quale afferma che ogni gatto ha tre nomi: il primo, quello con cui viene comunemente chiamato, il secondo, più particolare, quello con cui viene distinto dagli altri, il terzo, quello che solo il gatto conosce. È un po’ così anche per le opere d’arte: c’è l’opera che noi oggi conosciamo, quella che hanno conosciuto i suoi contemporanei, e infine quella – per così dire – irraggiungibile, che possiamo intuire solo per approssimazioni, ossia, appunto, il terzo nome del gatto.
Non sarà per caso che quel nome si nasconde nelle pieghe della storia sociale dell’arte, quella di un suo famoso articolo intitolato appunto «Per una storia sociale dell’arte» uscito su «Paragone» nel 1976?
Quell’idea nacque dal fatto che per ragioni diverse, che non riuscivo ancora compiutamente a mettere insieme, mi ero interessato a vari aspetti che potevano contribuire a contestualizzare l’opera d’arte. Ho sempre avuto un certo sospetto nei confronti di un discorso storico artistico chiuso in se stesso e cercavo di pensare a un progetto di storia dell’arte quanto più possibile globale, in grado di affrontare il rapporto tra l’opera e la società, ma nello stesso tempo anche la divaricazione tra il nostro modo di apprezzare l’opera e quello di coloro che la videro nascere.
Tra questi aspetti, uno a cui lei ha costantemente dedicato attenzione è quello geografico...
Effettivamente il rapporto tra luoghi e produzioni artistiche mi ha sempre interessato, naturalmente non in senso deterministico alla Hippolyte Taine «la race, le milieu, le moment», ma nel senso della storia che ha fatto quel paesaggio, quella strada, quella città, che hanno messo in rapporto gli artisti, le committenze. Credo che la prima cosa che mi ha interessato nella mia vicenda personale di storico dell’arte sono i rapporti tra culture figurative diverse e i primi studi che mi avevano attratto, facendo la tesi su Andrea Pisano, erano proprio quelli volti a capire quali elementi, quali spunti e modelli potevano venire dal Gotico francese. A Firenze il primo anno di università avevo comprato da Alinari le fotografie delle mensole della cappella Gondi di Santa Maria Novella e ricordo una cugina di mia madre che le guardava con aria sdegnata dicendo «Ah! roba d’Oltralpe!». Era proprio quello che mi incuriosiva, anche perché queste opere d’Oltralpe si trovavano a Firenze. In quel periodo avevo letto un articolo di Enzo Carli sulla giovinezza di Arnolfo di Cambio, dove si mettevano in campo delle opere che non conoscevo e che mi attiravano perché si avvertiva un forte incrocio con il Gotico francese. Insomma, a ripensarci mi rendo conto che la prima ricerca di contesto che avevo cercato di fare era quella di tipo spaziale-geografico e questa curiosità è poi continuata per tutta la vita.
Quindi gli interessi per la geografia artistica nascono prima del rapporto con Roberto Longhi.
Molto prima, erano gli anni dell’università a Torino, con i corsi di Anna Maria Brizio; ma naturalmente non sapevo che si chiamavano «geografia artistica». E quando poi Longhi mi chiese di fare una tesi di perfezionamento su Matteo Giovannetti ne fui entusiasta, perché significava occuparsi di un luogo «di frontiera». C’è qualcosa che mi ha sempre respinto nell’italianità dell’arte italiana. Nel 1950 ero stato per la prima volta a Parigi, e avevo visto una mostra che si chiamava «La Vierge dans l’art francais», con una serie di stupende sculture gotiche che mi avevano profondamente colpito. Poi avevo visitato Lione, Reims, Amiens, Auxerre; giravo tra la Borgogna, l’Ile de France e la Piccardia, per vedere quali erano gli aspetti della scultura gotica che potevano aver suggerito temi e soluzioni a quella italiana. Ma tornando a Matteo Giovannetti e Avignone, si trattava di un caso di «sradicamento», di un pittore che si forma in un certo clima e si trova a lavorare in un contesto diverso, con committenti diversi, in una città che nello spazio di pochi decenni si trasformava radicalmente. La situazione che occorreva interpretare è quella descritta in una splendida frase di Paul Frankl, che dice che il Gastkünstler dovrebbe essere per lo storico dell’arte l’equivalente di quello che per lo scienziato è l’esperimento di laboratorio: si studia un artista emigrato e se ne osservano i cambiamenti.
E come avviene che da queste prime contestualizzazioni di tipo «spaziale» si passa a quelle socio-culturali, che sono il vero tema dell’articolo del ‘76?
Qui giocano forse anche le simpatie politiche. Una delle prime occasioni in cui ho tentato di fare della storia sociale è stato in un articoletto uscito sulla rivista «Società» nel 1953. Recensivo la mostra degli olandesi a Roma ed esploravo temi che ho poi ripreso molti anni dopo nella prefazione al libro Arte del descrivere di Svetlana Alpers e nel Vermeer di John Michael Montias. Ora, questa mostra mi aveva colpito enormemente, perché si era di fronte ad una particolare società mercantile, molto diversa dalla società dei monarchi assoluti o dei principati cattolici, che trovava il modo di rappresentarsi nella sua pittura. C’era anche una spinta forse politica, all’origine, che portava ad interrogarsi sulle funzioni dell’opera d’arte, a vedere l’artista non come un libero spirito ma come parte di un contesto. Nei due anni in cui ero a Firenze a fare il perfezionamento con Longhi, io e i più stretti amici, in particolare John Clark, l’iniziatore della società Scala, famosa per le diapositive d’arte, eravamo però preoccupati di non schiacciare troppo la storia dell’arte sui fatti sociali, di non essere troppo deterministici scivolando nella teoria del «rispecchiamento».
Di questi interessi che cosa emergeva nelle discussioni con Longhi?
Longhi era stato un tempo amico di Antal, ma non ce ne parlava; piuttosto si preoccupava di metterci in guardia dal rischio di imporre all’opera d’arte schemi ideologici preconcetti. Doveva essere l’opera a informare sulla società e sui committenti, e non viceversa. Il che è vero, ma non del tutto, perché, ad esempio, è difficile interpretare un’opera olandese del Seicento se non si sa niente della società che l’ha prodotta; non per volergliela imporre a tutti i costi, ma per capirla. In realtà poi mi sembrava già allora che nel Longhi non di Breve ma veridica Storia, che reagiva al positivismo, ma degli scritti di Me pinxit, degli Aspetti dell’antica arte lombarda e di Arte e industria in Taddeo Gaddi c’era, diciamo così, un modo molto acuto di «annusare» il tempo dell’opera. Ma in quegli anni leggevo con avidità anche la Storia sociale dell’arte di Hauser, appena uscita e di cui ho ritrovato una mia recensione del terzo volume fatta per il «Notiziario Einaudi», intitolata «L’importanza dei committenti nella storia della pittura». Hauser, che incontrai due o tre volte, mi aveva colpito, anche se non del tutto convinto; poi c’era Antal, anche questo pubblicato da Einaudi in quegli anni. Libri che tra l’altro suscitarono molte critiche in Italia, perché il marxismo nostrano era ancora molto impregnato di idealismo.
È cominciato in quegli anni il rapporto con la casa editrice Einaudi? Come è nato?
Avevo conosciuto Giulio Bollati all’università e ho cominciato a scrivere delle cose per il «Notiziario», tra cui anche una recensione a II conoscitore d’arte di Friedländer e a Pittura e Controriforma di Federico Zeri. Poi, agli inizi degli anni Sessanta entrai a far parte dei consulenti della casa editrice e venni introdotto alle riunioni del mitico Mercoledì. II primo libro che presentai fu Arte e Illusione di Gombrich, che avevo letto d’un fiato e mi aveva molto marcato quando stavo scrivendo due capitoli, cui tengo molto, per Civiltà nell’Arte, un’enciclopedia che stavo curando per Zanichelli: «Visione e rappresentazione e Metodi e problemi di storia dell’arte». Con la pubblicazione da Einaudi di Arte e Illusione credo di aver contribuito decisamente a introdurre Gombrich in Italia, perché fino ad allora era stata tradotta, ma in un’edizione un po’ di lusso con copertina telata e fregi in oro, solo la sua Storia dell’arte. Personalmente, ne ero rimasto travolto; decisamente non era uno storico dell’arte del genere «triangoli, quadrati e piramidi» ...
Cioè uno storico dell’arte alla Wölfflin.
Sì, e qui mi viene in mente la storia del seminario di Adolf Goldschmidt, dove arriva un giovane allievo di Wölfflin e deve commentare un quadro olandese, un paesaggio, e comincia a descriverlo: «Qui vedo un semicerchio, qui un triangolo...» e Goldschmidt risponde: «Sì, lo vedo anch’io, ma ci vedo molte altre cose». Ma tornando a Gombrich, nel suo libro c’erano dei problemi davvero capitali, come quello del passaggio dal vedere al dipingere, il tema della creazione dei modelli, la rottura dell’illusione che esista uno «sguardo ingenuo»; non un libro di storia sociale dell’arte, ma un libro dove la storia dell’arte si intrecciava alla psicologia della percezione, alla costruzione, al ruolo e all’inerzia dei modelli. Insomma, si cercava di dimostrare come sia il «rappresentare» che il «vedere» fossero operazioni culturali molto complesse. Mi misi febbrilmente a radunare scritti sparsi di Gombrich per raccoglierli in volumi, e ricordo che quando gli mostrai la scelta, Gombrich mi disse che la Phaidon ci aveva già pensato e che presto sarebbero usciti due volumi, A cavallo di un manico di scopa e Norma e forma. Rimasi un po’ male perché pensavo che avremmo potuto pubblicarli noi per primi, ma in ogni modo questa fu una conferma, e così anche quei due volumi, come poi gli altri, vennero pubblicati da Einaudi.
A parte i libri di Gombrich, quali furono in quegli anni i suoi più significativi contributi al catalogo della Einaudi?
Tra i progetti realizzati per la «Biblioteca di Storia dell’Arte» einaudiana, cui ho lavorato a lungo con Giovanni Romano e poi con Paolo Fossati, ci fu la pubblicazione di Pittura e Miniatura in Lombardia di Pietro Toesca, un libro straordinario e ricordo con commozione di aver convinto lo stesso Toesca, studioso geniale e uomo quanto mai schivo, a ripubblicare quest’opera. Poi bisognerebbe parlare anche dei progetti non realizzati... per esempio quello di una antologia di scritti di un altro grande della storia dell’arte, Otto Pächt, di cui tanto a lungo mi avevano parlato Ilaria Toesca e Carlo Bertelli. Tutto era pronto, poi le difficoltà della traduzione di testi dal tedesco e dall’inglese fecero slittare e rimandare sine die la pubblicazione. In un altro caso il destino è stato più favorevole. Mi sono infatti battuto con successo per la pubblicazione di un libro che mi era piaciuto enormemente, Arte e rivoluzione Industriale, di Francis Klingender, uscito la prima volta nel 1947e di cui mi aveva parlato a Torino Rudolf Wittkower. Scoprii che l’opera era già stata segnalata all’Einaudi da Piero Sraffa ai tempi della prima edizione inglese, ma non aveva superato lo scoglio di un giudizio molto critico di Cesare Pavese, il quale trovava inutile cercare le tracce dei grandi avvenimenti storici nelle vicende di artisti e personaggi di terz’ordine. Questo era esattamente quello che più mi interessava e ci dà la misura di quanto la nostra cultura di sinistra fosse marcata dal pensiero crociano. Ecco, al contrario, quello che io apprezzavo in Longhi era la capacità di farti capire che quello che sembrava piccolo poteva essere invece grandissimo; l’intelligenza di non giocare sui grandi nomi, come Raffaello, Michelangelo o Leonardo, che non amava molto, riuscendo a ricomporre delle situazioni proprio attraverso i cosiddetti «piccoli nomi». Tra gli altri libri proposti ad Einaudi ci fu La fortuna dei primitivi, che presentammo, se non sbaglio, Giulio Bollati ed io, la celebre tesi che Giovanni Previtali aveva fatto con Longhi... Sono i primi nomi che mi vengono in mente, ma naturalmente ce ne sono molti altri, last but not least il Vermeer di Montias, un bell’esempio di storia sociale...
Lei ha insegnato per molti anni all’università di Losanna. In che modo questa esperienza ha inciso sui suoi interessi nei confronti della cultura alpina?
Per chi sta a Torino, l’interesse per le Alpi è un po’ fatale, e poi avevo lavorato per un’enciclopedia a dispense che si chiamava Tuttitalia, fatta da Sansoni, scrivendo gli itinerari e il ragguaglio delle arti della Val di Susa, della Valle d’Aosta e delle Valli Valdesi. Questo succedeva nel 1961, poi a partire dall’ottobre del 1964 è cominciato l’insegnamento a Losanna. Tra Losanna e Ginevra avevo trovato un gruppo di persone molto motivate politicamente, che cercavano anche nella storia sociale dell’arte il modo di aprirsi in varie direzioni. L’articolo «Per una storia sociale dell’arte» nasce infatti da un seminario che si tenne nel 1975 all’istituto Svizzero di Roma, ed era stato lungamente discusso con Pierre Chessex e Erica Deuber, dopo un incontro molto stimolante con Pierre Bourdieu, il quale stava preparando l’uscita della sua rivista «Actes de la Recherche en Sciences Sociales». Erano anni molto interessanti per le discussioni, per i contatti che si avevano... A Parigi ricordo di aver incontrato Michel Laclotte, nella Sorbona appena occupata, e mi sono ritrovato anche con Dieter Kimpel e Philippe Junod a presidiare un palco dell’Odéon il 10 maggio del ‘68! Vedevo André Chastel, con il quale naturalmente però non parlavo di politica. Ma anche in Italia il clima era interessante. Ricordo a Firenze, ‘75, un’aula incredibilmente piena e vibrante, e io che facevo il discorsetto sulla storia sociale dell’arte. Oggi credo che certe questioni non importerebbero più a nessuno.
E per quale ragione oggi non esiste più questa sensibilità e questo interesse?
Difficile a dirsi; forse, semplicemente, le mode cambiano senza che se ne sappia ben il perché, o forse perché siamo in un clima di riflusso. La storia dell’arte mi sembra molto più parcellizzata, e per molti aspetti anche più sofisticata. Un certo tipo di rapporto con il sociale ci appare forse troppo semplicistico. D’altra parte quello che gli inglesi e gli americani ci hanno presentato come «New History of Art» è un sacrosanto pasticcio in cui c’è post-moderno, decostruttivismo, antistoricismo... e tuttavia io non mi sento particolarmente motivato a un ritorno alla storia dell’arte che abbia come suo unico oggetto la storia dell’arte.
Il suo rientro nell’università italiana, prima a Torino, poi a Pisa, fu preceduto dalla partecipazione a due mostre importanti, quella dedicata a Jaquerio e al Gotico internazionale, del 1979, e quella sulla cultura figurativa in Piemonte tra Sette e Ottocento.
Quelli furono progetti importanti, il primo ideato da Giovanni Romano, il secondo da Marco Rosci, in un periodo in cui fu possibile stabilire percorsi comuni di ricerca e di lavoro con Università, Soprintendenze e amministrazioni comunali. Si risentiva ancora dell’entusiasmo delle elezioni del ‘75. In realtà, però, qualche tempo dopo, ed eravamo già negli anni del terrorismo, l’impatto con Torino fu scoraggiante. Per me che venivo da un’università piccola e bene organizzata, l’inerzia burocratica e la triste condizione di degrado di Palazzo Nuovo; la difficoltà delle condizioni di lavoro in un’università di massa, a cui non ero abituato, furono fattori determinanti nello spingermi ad un rapido passaggio alla Normale di Pisa.
E quelli tuttavia sono anche gli anni della Storia dell’Arte Einaudi e del saggio scritto a quattro mani con Carlo Ginzburg su «Centro e Periferia».
Centro e periferia è nato in quel tempo in cui si pensava anche ai modi diversi di fare storia dell’arte e, preparandolo, facemmo, invitati da Paola Barocchi, tre seminari alla normale a cui partecipò anche Carlo Dionisotti. Credo che il merito di quel saggio stia soprattutto nella configurazione che nasce dallo sperimentare una nuova griglia interpretativa su problemi che lì per lì potrebbero sembrare già risolti. Si trattava di vedere come le storie costituite, in molti casi, diventassero una sorta di schermo molto limitativo. E qui mi verrebbe da ritornare a Longhi. Anche la geografia artistica dell’Italia: era stato Longhi che, con scoperte come quelle dei bolognesi e degli umbri del Trecento, ci aveva insegnato come dovesse essere scompaginata e come certe ripartizioni e certe gerarchie fossero frutto di operazioni datate nel tempo, interamente da rivedere. In fondo, il tentativo, con Centro e periferia è stato quello di incrociare spazio e società, e si può dire che ne è venuta fuori una chiave di lettura che ha avuto anche dei seguiti.
Dopo i saggi per la Storia dell’Arte Einaudi sono venute le Vetrate medievali, che, se non sbaglio, ha avuto una gestazione piuttosto lunga. Ricordo che quello fu anche il tema del suo primo corso all’università di Torino nel 1980, con lezioni che, quanto a problemi di spazialità geografica, lasciavano gli studenti assolutamente sbalorditi e alle prese con problemi che si muovevano dall’Ile de France, all’Inghilterra, alla Germania, ad Assisi...
Sì, una gestazione lunghissima, perché il libro viene dalle emozioni suscitate dalla mostra parigina «Vitraux de France», del 1953, che poi recensii su «Paragone». Un interesse che ho continuato a coltivare per dei secoli, forse perché nelle vetrate mi colpiva l’insieme di luce, colore e pittura, un’esperienza che oggi non conosci ma che è invece stata di importanza capitale nel Medioevo.
Vorrei tornare al tema della figura dell’artista, che è uno dei punti del sistema interpretativo proposto già nell’articolo sulla storia sociale dell’arte. Se intorno a Matteo Giovannetti ruotavano i temi dello «spaesamento» e della committenza, come si spiega invece l’interesse per Wiligelmo?
La mostra di Wiligelmo fu un’occasione inattesa, a cui non mi sentivo particolarmente preparato ma che mi ha molto divertito in quanto mi ha aiutato a uscire da una forma monografica, ossia a non immaginare una mostra sulla personalità di un artista, cosa verso cui sentivo una certa riluttanza, ma a pensarla piuttosto come un’occasione per mettere insieme una serie di approcci differenti che, condotti ognuno per la sua strada, avrebbero potuto far luce anche sulla personalità. Non si trattava di parlare di un artista ma di un cantiere e di interrogarsi su questa incredibile manifestazione di «autocoscienza» che committenti e pubblico avevano della grandezza di uno scultore cui avevano affidato la realizzazione di un’opera. Partendo dalle iscrizioni di Lanfranco e Wiligelmo si potevano affrontare problemi di divisione di compiti tra architetti e scultori; rapporti tra committenti, pubblico e artisti; modelli; problemi di iconografia; è un po’ tutto questo che cercammo di fare, con Adriano Peroni, Salvatore Settis e Vito Fumagalli, nella mostra modenese del 1984.
Dagli studi su Wiligelmo è poi nato anche un interesse più generale per l’artista medievale...
In effetti il problema era quello di vedere l’artista medievale non soltanto partendo dalle sue opere, ma attraverso tutte quelle testimonianze (iscrizioni, contratti, cronache abbaziali, gesta vescovili ecc.) che potevano far luce su che cosa si diceva di lui, su come il suo nome era stato tramandato. Quindi non solo una storia stilistica, ma una storia «tout-court». Qui l’occasione è stata un capitolo che mi aveva chiesto Jacques Le Goff per il suo libro L’uomo medievale, anche se avevo già abbordato l’argomento nella prefazione a La leggenda dell’artista di Ernst Kris e Otto Kurz, un libro bellissimo. Tra l’altro sul tema dell’artista medievale stiamo preparando, per l’autunno, un convegno internazionale, a Modena, che tenterà di fare il punto sia sugli aspetti della fortuna e della «leggenda», sia su quelli più legati alla produzione: organizzazione e metodi di lavoro, cultura tecnica, rapporti con i committenti...
Vedo qui le bozze di un suo nuovo libro. Nell’indice, l’elenco dei capitoli sembra un po’ la sintesi della sua carriera: «Frontiere», «I tanti volti della storia dell’arte», «Scoperta del Medioevo», «Gotico italiano e Gotico europeo»...
In un certo senso sì, perché si tratta di una raccolta di saggi sparsi usciti su riviste e giornali a partire dagli anni Sessanta. Lo pubblicherà a settembre l’editore Sillabe di Livorno. Ma bisogna dire che su molti di questi temi sto ancora lavorando. In questi anni i miei interessi «alpini» sono proseguiti con la collana della Cassa di Risparmio di Trento e Rovereto, dal libro sui Mesi del Buonconsiglio, del 1986, fino alla mostra che stiamo preparando per il 2001 sull’arte del Gotico internazionale nelle Alpi. Quanto alla «scoperta del Medioevo» vorrei ricordare il libro che ho curato, insieme a Clara Baracchini, sul Camposanto di Pisa, interessante anche perché ci dà modo di vedere come un momento che nell’ottocento era considerato, più di ogni altro, il paradigma del Medioevo italiano, e per Ruskin uno dei fari della civiltà, sia caduto poi in abbandono per molti decenni. Nell’illustrare il Camposanto di Pisa, lo sforzo è stato quello di fare, insieme, storia del monumento e storia della fortuna, della critica, delle idee e dei modi di percepirlo.
Intervista a cura di Enrica Pagella
NOMI CITATI
- Actes de la Recherche en Sciences Sociales
- Alinari, Fratelli
- Alpers, Svetlana
- Andrea Pisano
- Antal, Frederick
- Arnolfo di Cambio
- Baracchini, Clara
- Barocchi, Paola
- Bertelli, Carlo
- Bollati, Giulio
- Bourdieu, Pierre
- Brizio, Anna Maria
- Carli, Enzo
- Cassa di Risparmio di Trento e Rovereto [Fondazione CARITRO]
- Chastel, André
- Chessex, Pierre
- Clark, John
- Deuber, Erica
- Dionisotti, Carlo
- Einaudi
- Eliot, Thomas Stearns
- Fossati, Paolo
- Frankl, Paul
- Friedländer, Max Jakob
- Fumagalli, Vito
- Ginzburg, Carlo
- Giovannetti, Matteo
- Giovanni Pisano [scuola]
- Goldschmidt, Adolph
- Gombrich, Ernst
- Hauser, Arnold
- Jaquerio, Giacomo
- Junod, Philippe
- Kimpel, Dieter
- Klingender, Francis
- Kris, Ernst
- Kurz, Otto
- Laclotte, Michel
- Lanfranco
- Le Goff, Jacques
- Leonardo da Vinci
- Longhi, Roberto
- Michelangelo
- Montias, John Michael
- Notiziario Einaudi
- Pächt, Otto
- Pagella, Enrica
- Paragone
- Pavese, Cesare
- Peroni, Adriano
- Phaidon Press
- Previtali, Giovanni
- Raffaello
- Romano, Giovanni
- Rosci, Marco
- Ruskin, John
- Sansoni
- Scala
- Settis, Salvatore
- Sillabe
- Sraffa, Piero
- Taine, Hippolyte Adolphe
- Toesca, Ilaria
- Toesca, Pietro
- Vermeer, Johannes
- Wiligelmo
- Wittkower, Rudolf
- Wölfflin, Heinrich
- Zanichelli
- Zeri, Federico
LUOGHI E ISTITUZIONI CITATE
- Amiens [Francia]
- Assisi [Perugia]
- Auxerre [Francia]
- Avignone [Francia]
- Borgogna [Francia]
- Firenze
o Basilica di Santa Maria Novella
Cappella Gondi
o Università degli Studi di Firenze
- Ginevra [Svizzera]
- Île-de-France [Francia]
- Lione [Francia]
- Losanna [Svizzera]
o Università di Losanna
- Modena
- Parigi [Francia]
o Musée des Arts Décoratifs
o Petit Palais
o Sorbonne Université
o Teatro dell'Odéon
- Piccardia [Francia]
- Pisa
o Camposanto
o Chiesa di Santa Maria della Spina
o Scuola Normale Superiore
- Reims [Francia]
- Roma
o Istituto Svizzero
- Torino
o Palazzo Nuovo [Università di Torino]
o Università degli Studi di Torino
- Trento
o Castello del Buonconsiglio
- Val di Susa
- Valle d’Aosta
- Valli Valdesi
Collezione: Il Giornale dell'Arte
Etichette: _INTERVISTA, Storia e storici dell'arte
Citazione: Enrico Castelnuovo e Enrica Pagella, “Il terzo nome del gatto,” Enrico Castelnuovo sulla carta stampata. La Stampa e Il Sole 24 Ore, ultimo accesso il 17 dicembre 2024, https://asut.unito.it/castelnuovo/items/show/15.