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Titolo: I Progenitori nella Tempesta

Descrizione: Recensione dell’opera: Salvatore Settis, La Tempesta interpretata. Giorgione, i committenti, il soggetto, Torino, Einaudi, 1978.
Una copia del volume è presente nel fondo librario di Castelnuovo, conservato dalla Biblioteca storica d’Ateneo “Arturo Graf”.

Autore: Enrico Castelnuovo

Fonte: La Stampa, anno 112, n. 137, p. 13

Editore: La Stampa; digitalizzazione: Archivio storico dell'Università di Torino (2023)

Data: 1978-06-16

Gestione dei diritti: Quest'opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione 4.0 Internazionale

Relazione: Inventario del fondo Enrico Castelnuovo, unità archivistica «La Stampa» (Archivio storico dell'Università di Torino)

Formato: application/pdf

Identificatore: Stampa_3

Testo: «La Stampa» – Anno 112, n. 137 – Venerdì 16 giugno 1978, p. 13
(pagina l’arte)



I Progenitori nella Tempesta



Gabriele Vendramin, patrizio e uomo d’affari veneziano, dettando nel 1552 il suo testamento, ricordava di aver raccolto nella sua casa di Cannaregio «molte picture a ogio et a guazo in tavole e telle, tute de mano de excelentissimi homeni» ed esternava l’affetto che portava loro «massime per eser sta quelle che a tante fatiche di mente et di corpo... mi ha dato uno pocho de riposso et quiete de hanimo». Tra le opere che avevano procurato al Vendramin «riposo et quiete» una era stata descritta vent’anni prima da un altro conoscitore patrizio, Marco Antonio Michiel come «el paesetto in tela cun la tempesta, cun la cingana et soldato... de mano de Zorzi de Castelfranco». Si apriva così il dossier di un quadro destinato a far molto parlare di lui.
Nella breve scheda, una delle tante che il Michiel aveva vergato visitando raccolte e collezioni, ammassando materiale per un’opera che non scrisse mai, erano condensate varie informazioni sul dipinto: il supporto (tela), il genere e le dimensioni (paesello), l’autore (Giorgione), nonché gli elementi più significativi e utili per ricordare la scena rappresentata: il fulmine (la tempesta) e la condizione dei personaggi, per quanto potevano suggerirgli gli atteggiamenti e i costumi: soldato il giovane in piedi appoggiato a un’asta come una sentinella, zingara, per la poco composta posizione, la donna seminuda che allatta un bambino. La sommaria descrizione con cui, per privatissimo uso, l’opera era stata caratterizzata rimase per secoli inedita, ma ritrovate e pubblicate l’anno 1800 le note del Michiel, venne riesumata quando cominciava a crescere il mito di Giorgione. Fu così che il quadro appartenuto a Gabriele Vendramin fu comunemente conosciuto sotto un titolo – la Tempesta – tolto da uno dei tratti distintivi enumerati nella scheda del Michiel.
Il fatto di aver privilegiato per dare un titolo al quadro proprio l’evento atmosferico cui si riconosceva un particolare valore ha un sapore romantico. Ci fu tuttavia chi non fu propenso ad ammettere che Giorgione agli inizi del Cinquecento potesse scegliere di dipingere una tempesta come avrebbe potuto fare William Turner tre secoli dopo. Di qui il nascere di un «caso» che per molto tempo ha diviso gli storici dell’arte. Da un lato vi furono coloro che ipotizzarono un Giorgione moderno, libero di determinare il proprio soggetto e addirittura, in piena indipendenza dal volere dei committenti, di non considerarlo che un pretesto. Dall’altro furono numerosi coloro che pensarono che un simile atteggiamento non fosse a quel tempo possibile e che cercarono d’individuare un senso, un filo conduttore nella molteplicità degli elementi rappresentati.
Non fu facile trovare un minimo comune denominatore a tanti disparati oggetti (oltre a quelli citati dal Michiel ci sono due colonne spezzate, un serpentello che si nasconde sotto una roccia, alberi, una città con torri e cupole, un ponte, un fiume...) e la situazione apparve presto assai intricata: se da un lato c’erano i sostenitori della libera fantasia dell’artista e della trascurabile importanza del soggetto, dall’altra coloro che tentavano d’identificare in priorità l’iconografia della scena si trovarono tra loro in gran disaccordo, evocando con diverse giustificazioni, e magari sovrapponendo, temi mitologici, biblici, esoterici, agiografici, leggendari...
Ora in pieno anno giorgionesco un libro appassionante e appassionato di un archeologo classico, La Tempesta Interpretata di Salvatore Settis (Torino, Einaudi 1978) viene a lanciare una sfida agli storici dell’arte proponendo un modello di ricerca che contrasta l’intramontabile mito dell’artista-demiurgo, moltiplica il numero delle varianti inserendo l’opera all’incrocio della tradizione iconografica e delle attese dei committenti, e precisa delle ferree regole di lettura per permettere un controllo sulla coerenza e la congruità delle ipotesi.
La nuova decifrazione che qui si propone e giustifica di un quadro tanto, e tanto a lungo, discusso ha stupito per la sua apparente semplicità: soggetto della «Tempesta» sarebbero i Progenitori dopo la cacciata dall’Eden; Adamo il soldato, Eva che allatta Caino la «cingana», il Paradiso perduto la città al di là del fiume, quanto al fulmine che ha dato nome al quadro esso sarebbe figura di Dio padre. Non siamo tuttavia di fronte solo a una nuova interpretazione della «Tempesta», ma anche a un modello di tecnica operativa in cui vengono applicati con successo i metodi dell’archeologo che lavora sulle serie prima che sui singoli monumenti.
Finora gli storici dell’arte, privilegiando esclusivamente il ruolo dell’artista, avevano implicitamente ipotizzato che lo schema della «Tempesta» fosse un unicum inventato da Giorgione, e ciò sia che lo ritenessero liberamente composto senza un preciso soggetto, sia che, al contrario, lo pensassero inventato per rappresentare un tema particolare. Diversamente ha agito Salvatore Settis che ha inteso rompere l’isolamento del quadro mettendolo in serie con altre opere ove ricorresse il medesimo schema iconografico.
In questa ricognizione archeologica egli si è fortunatamente imbattuto in una scena appartenente alla tradizione iconografica precedente a Giorgione che poteva, per molti aspetti, sovrapporsi alla «Tempesta», un rilievo dell’Amadeo che, nella cappella Colleoni a Bergamo, fa parte di un ciclo tratto dal Genesi e rappresenta l’ammonizione del Signore ai Progenitori. Del tutto analoghe le posizioni dell’uomo e della donna, mentre al centro, in luogo del fulmine del quadro veneziano, si erge l’imponente figura di Dio padre. La tappa successiva fu quella di ricomporre la sequenza della tradizione iconografica proposta, quella dei Progenitori, e di verificarne le trasformazioni per controllare le possibilità di una lettura dell’opera in questo contesto.
La «Tempesta» sarebbe dunque un soggetto sacro, al pari dell’altra tela di Giorgione che il Michiel aveva visto in casa Vendramin, «el Christo morto sopra el Sepolcro con l’anzolo chel sostenta». A differenza di questa tuttavia il soggetto non ne è per nulla palese, anzi lo si direbbe deliberatamente occultato, paragonabile piuttosto ai «Tre Filosofi» (che sono in realtà i Magi che cercano la stella annunciante la nascita del re dei re, oggetto in questo libro di una lettura esemplare) oggi a Vienna, ma al tempo del Michiel in Cannaregio nel palazzo di Taddeo Contarini, amico, parente e vicino di casa di Gabriele Vendramin.
Se da una parte il Settis propone la spiegazione di un «mistero» attraverso il deciframento del soggetto nascosto, dall’altra è la causa di tanti misteri che intende chiarire, quella appunto che induceva Giorgione a nascondere i propri soggetti, o piuttosto a mutarli in senso nuovo e privato, a trasformare scene universalmente note in rappresentazioni cifrate e segrete cui pochissimi potevano accedere, escludendo i plebei dai piaceri dei dotti. È qui che entra in gioco lo stretto rapporto che univa tra loro i membri del piccolo ed esclusivo gruppo dei committenti di Giorgione, e la nuova relazione che intrattenevano col pittore, con la sua ricerca, coi suoi quadri cui conferivano un valore e un significato tanto grandi e personali che quando Isabella d’Este volle acquistarne le fu risposto che essi «non sono da vendere per pretio nessuno perché li hanno fatti per volerli godere per loro». Nelle opere di Giorgione questi ottimati veneti scorgevano degli strumenti d’identificazione sociale, ad essi richiedevano la prova di far parte di un gruppo di happy few, raffinati possessori di strumenti culturali che consentivano a loro e non ad altri di intenderne simboli e allusioni. «Per ornamento... delle private habitationi» essi ordinavano quadri sacri, ma ricercando, d’accordo col pittore, un’ambigua attenuazione e quasi un occultamento del significato, in modo da poterne profittare in pochi. Legati strettamente all’artista per età e per cultura essi possono apparirci oggi quasi come una prefigurazione di quella ristretta cerchia di sostenitori, mercanti, critici, collezionisti, delle avanguardie del Novecento, di quei Kahnweiler, Stein, Rupf che cercarono nei criptogrammi del cubismo analitico di Picasso e di Braque ciò che i Contarini e i Vendramin avevano scorto negli arcani e sublimi geroglifici di Giorgione: il segno di un’appartenenza esclusiva, di un’aristocratica e segreta modernità.
Enrico Castelnuovo

Giorgione (1478-1510), un particolare de «La tempesta».
NOMI CITATI

- Amadeo, Giovanni Antonio
- Braque, Georges
- Contarini, Taddeo
- Einaudi
- Giorgione
- Isabella d’Este, marchesa di Mantova
- Kahnweiler, Daniel-Henri
- Michiel, Marcantonio
- Picasso, Pablo
- Rupf [Hermann e Margrit]
- Settis, Salvatore
- Stein, Gertrude
- Turner, Joseph Mallord William
- Vendramin, Gabriele



LUOGHI E ISTITUZIONI CITATI
- Bergamo
o Cappella Colleoni
- Venezia
o Cannaregio
- Vienna [Austria]
o Kunsthistorisches Museum

Collezione: La Stampa

Citazione: Enrico Castelnuovo, “I Progenitori nella Tempesta,” Enrico Castelnuovo sulla carta stampata. La Stampa e Il Sole 24 Ore, ultimo accesso il 17 dicembre 2024, https://asut.unito.it/castelnuovo/items/show/16.