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Titolo: Nella terra dell'eterno

Descrizione: Castelnuovo propone uno stralcio della parte iniziale della sua introduzione a Il Camposanto di Pisa (a c. di Clara Baracchini ed Enrico Castelnuovo, Torino, Einaudi, 1996, pp. 3-6), in cui ripercorre la fortuna critica del monumento nel XIX secolo a partire dai giudizi che ne hanno dato viaggiatori e letterati di tutta Europa.
Una copia dell’opera è presente nel fondo librario dell’autore, conservato dalla Biblioteca Storica d'Ateneo "Arturo Graf".

Autore: Enrico Castelnuovo

Fonte: Il Sole 24 Ore, anno 132, n. 295, p. 21

Editore: Il Sole 24 Ore; digitalizzazione: Archivio storico dell'Università di Torino (2024)

Data: 1996-10-27

Gestione dei diritti: Licenza Creative Commons
Quest'opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione 4.0 Internazionale

Relazione: Inventario del fondo Enrico Castelnuovo, unità archivistica «Il Sole 24 Ore» (Archivio storico dell'Università di Torino)

Formato: application/pdf

Identificatore: Sole_33

Testo: «Il Sole 24 Ore» – Domenica 27 ottobre 1996, n. 295, p. 21



La storia del Camposanto di Pisa, luogo di fama europea dove il genio medievale ha disegnato il senso della vita

Nella terra dell’eterno



Sta per uscire presso Einaudi il volume, a cura di Clara Baracchini e Enrico Castelnuovo, Il Camposanto di Pisa (pagg. 214, L. 150 mila). Sarà in libreria i primi di novembre. Ad esso hanno partecipato con saggi Antonino Caleca, Mauro Ronzani, Roberto Paolo Ciardi, Lina Bolzoni, Gigetta Dalli Regoli e Paola Richetti, Claudio Casini e Fulvia Donati, Fernando Mazzocca, Ettore Spalletti e, ovviamente, i curatori. Nel volume si ripercorre la nascita, lo sviluppo e le alterne fortune del monumento sul piano architettonico e decorativo. Universalmente conosciuto in passato, oggi non è considerato come merita. Per questo ospitiamo, per concessione dell’Einaudi, un intervento di Enrico Castelnuovo (è parte dell’introduzione al volume) che illustra alcuni momenti – sino all’Ottocento – della fortuna del Camposanto.



di Enrico Castelnuovo
Esistono monumenti – pochi – che una volta ultimata la costruzione e la decorazione trascorrono nei secoli una vita silenziosa, senza che nulla venga a modificarne o a variarne in modo marcato l’aspetto.
Ve ne sono altri – e sono la maggioranza – che hanno attraversato trasformazioni, arricchimenti, sottrazioni che ne hanno parzialmente mutato i caratteri. Nella maggior parte dei casi, questi interventi si sono concentrati entro tempi determinati: anni in cui la storia dell’edificio ha conosciuto un’accelerazione, una variazione, per poi riprendere a fluire, e per lungo tempo, a un ritmo assai più lento. Esistono, infine, alcuni monumenti, dove la storia sembra essersi depositata con un’intensità e una continuità del tutto particolari, in strati successivi, quasi senza interruzione.
Mentre il tempo degli uni è trascorso in modo irregolare, con periodi di mutamenti e di variazioni seguiti da lunghi secoli di calma, il tempo degli altri disegna una diversa traiettoria, un diverso tracciato, e sono proprio questi tracciati che rivelano la specificità degli strati storici. In simili monumenti, ogni epoca è in qualche modo intervenuta trasformando, modificando, arricchendo, distruggendo talvolta, lasciando innumeri tracce che si intersecano, si sovrappongono, si elidono in modo inestricabile. Può avvenire che una presenza non ne elimini un’altra, ma che piuttosto si situi a un livello diverso, sovrapponendosi a quella senza cancellarla, come se si trattasse di forme di universi paralleli, di sentieri e di vie che non si incrociano mai per essere disposti a quote diverse.
È questo il caso del Camposanto di Pisa, un monumento di una ricchezza straordinaria, di un eccezionale spessore, conferitogli non soltanto dalle presenze materiali delle pitture, delle sculture, delle lapidi, delle tombe, dei sarcofagi, degli oggetti che nel corso del tempo si sono depositati nelle sue gallerie e sulle sue pareti, ma anche da mille tracce immateriali, dal passaggio di generazioni di visitatori, dalle loro emozioni, dai loro scritti, dai loro disegni, dalle immagini che ne hanno tratte. Un complesso di eventi che, come i fili di una ragnatela invisibile apparsi all’improvviso per effetto di qualche goccia d’acqua, intessono intorno al monumento una gabbia leggerissima, ma assolutamente concreta, percepibile o impercepibile a seconda del come la si guardi.
Eppure, questo straordinario edificio, che nell’Ottocento aveva goduto di una celebrità senza pari, nel nostro secolo ha sofferto per varie cause di un malinconico declino scampando a malapena la distruzione durante l’ultima guerra, tanto che nell’evocare la sua vicenda si sarebbe tentati di esordire con la frase con cui Ford Madox Ford apre il suo celebre romanzo The Good Soldier: «questa è una storia molto triste».
Nel XIX secolo, il Camposanto fu il più celebre monumento medievale italiano, se non addirittura d’Europa. In esso si vedeva prender corpo l’immagine di un Medioevo mediterraneo e cittadino; in un’architettura solare e splendente di marmi, accanto a sarcofagi romani e a reliquie islamiche, si palesavano e si concentravano nelle immagini degli affreschi che la decoravano le aspirazioni e le preoccupazioni, le attese e i timori, tutti gli aspetti, i caratteri, i modi di sentire e di pensare che venivano attribuiti all’uomo medievale, vi si ritrovano i toni aspri o festosi della vita e l’orrore della morte, il lusso sfarzoso e le angosce dell’aldilà, il modello della vita eremitica e il fascino dell’avventura, i santi e i guerrieri, i miracoli e le punizioni, la dannazione e la salvezza, il cielo e la terra, l’assetto stesso del cosmo. Gli affreschi del Camposanto vennero così a esemplificare per eccellenza le funzioni e le capacità della nuova pittura trecentesca che dispiegava sulle pareti delle chiese e delle sale comunali le proprie capacità comunicative in una straordinaria retorica per immagini.
In una sala della Neue Pinakothek di Monaco è esposto un dipinto che rappresenta il braccio occidentale del Camposanto. Una luce dorata bagna le gallerie del chiostro, sul muro di fondo si alzano l’imponente Cosmografia dell’orvietano Piero di Puccio e i primi affreschi delle Storie della Genesi di Benozzo Gozzoli, ad essa contigui, mentre sulla sinistra appaiono, in ordine sparso, i più importanti monumenti classici, islamici, medievali, ottocenteschi del Camposanto. Autore del quadro dipinto nel 1856, è Leo von Klenze, l’architetto che ha trasformato, lavorando con Luigi di Baviera, il volto di Monaco, facendone una nuova Atene, una nuova Firenze sulle rive dell’Isar. Per von Klenze, il Camposanto di Pisa era un monumento emblematico, il simbolo di una civiltà, l’immagine di un’Italia medievale e cristiana, come il Partenone lo era per quella ellenica. Difatti, nella stessa sala della Neue Pinakothek e sulla medesima parete vi è un altro suo dipinto più antico che rappresenta, appunto il Partenone: Klenze aveva scelto Pisa e Atene come due culmini, due alti punti della storia dell’umanità.
Qualche decennio prima, al Regent park di Londra, un celebre diorama, quella straordinaria rappresentazione ottica che nei primi decenni dell’Ottocento entusiasmava le folle, proponeva due scelte non meno significative: Parigi vista dalle colline di Montmartre e l’interno di una galleria del «singular and celebrated Campo Santo of Pisa». Pisa e Atene, Pisa e Parigi: in questi anni il Camposanto è considerato un monumento esemplare, un punto di riferimento per la storia della civiltà.
A questo punto, torniamo indietro e cominciamo la storia dal principio. Nel 1278, l’architetto Giovanni di Simone inizia a costruire accanto al duomo e al battistero il Camposanto, la cui lunga parete marmorea verrà a chiudere verso settentrione quello stupefacente spazio monumentale che è stato chiamato la piazza dei Miracoli. Più recente rispetto alla cattedrale, al campanile (la celebre torre pendente) e al battistero, esso si articola come un colossale chiostro in quattro gallerie che inquadrano un prato deve la leggenda voleva fosse stata portata dalla Palestina da un arcivescovo pisano reduce dalle crociate, Ubaldo Lanfranchi, una terra miracolosa che disfaceva nello spazio di ventiquattr’ore i corpi di chi vi veniva seppellito. Pisa era all’apice della sua gloria; fra pochissimo, nel 1284, con la sconfitta della Meloria si manifesterà con evidenza la crisi che poco più di un secolo dopo finirà per travolgerla.
Il Trecento fu l’ultimo gran secolo della città e fu in questo periodo che venne costruito e per gran parte decorato il Camposanto. Sulle pareti delle sue lunghe gallerie si susseguirono al lavoro alcuni dei grandi freschisti del trecento, come il pisano Francesco Traini (se è lui l’autore della Crocifissione sulla parete est), poi pittori provenienti per la massima parte da Firenze: il mitico fiorentino Buffalmacco, eroe di tante novelle del Boccaccio e di Franco Sacchetti, riconosciuti da Luciano Bellosi nell’autore del celebre Trionfo della Morte; quindi il misterioso Stefano Fiorentino, Taddeo Gaddi, Andrea da Firenze, Antonio Veneziano, Spinello Aretino, l’orvietano Piero di Puccio e, quando Pisa era ormai stata assoggettata a Firenze, dopo una lunga stasi dovuta a questo avvenimento in ogni senso traumatico, Benozzo Gozzoli, che tra il 1467 e il 1484, decorò con storie bibliche la galleria settentrionale su commissione di un vescovo di casa Medici. Tra la fine del Cinquecento e gli inizi del Seicento vennero affrescati anche il braccio ovest e le superfici rimaste libere del braccio est. Nel corso del Cinque e del Seicento si moltiplicano nei bracci est e ovest i monumenti funerari di grande importanza cui lavorano Stagio Stagi, il Tribolo e via via l’Ammannati, il Tadda, il Foggini. I nuovi monumenti quando si appoggiavano a una decorazione pittorica precedente tentarono di risparmiarla o al massimo ne sfruttarono le lacune. Il primo monumento la cui costruzione sembra aver seriamente danneggiato senza scrupoli gli affreschi trecenteschi fu quello, con epitaffio di Federico di Prussia, eretto all’Algarotti (morto a Pisa nel 1764). Ammirato dai contemporanei (dal Dupaty nelle Lettres sur l’Italie en 1785, ma anche dal grande erudito pisano Alessandro Da Morrona che pure aveva lamentato i danni alle pitture di Benozzo occasionati dall’incastro di lapidi fulminando: «che simili marmi si incassino nella moderna fascia inferiore che gira intorno ai lati dell’edifizio, alla buon’ora; ma che per esse taluno addietro lacerasse i buoni pezzi di pittura, Dio gli perdoni le peccata»), fu considerato da Francis Palgrave nello Hand-Book for Travellers in Northern Italy del Murray un’orrenda profanazione.
Per secoli – le prime notizie risalgono al 1371 – gli affreschi del Camposanto erano stati oggetto di ripetuti interventi di conservazione e di restauro; le disinvolte distruzioni occasionate dall’erezione del monumento Algarotti costituirono una novità. Ma proprio quando il prevalere di un gusto classicheggiante poteva comportare un pericolo per la conservazione delle opere medievali si annunciava il nascere di una nuova sensibilità.
Tra i primi a manifestarla nei confronti del Camposanto fu William Beckford, il bizzarro abitatore di Fonthill Abbey, narratore insolito e fantastico – è lui l’autore del Vathek –, dandy stravagante, ricchissimo e dissipatore, viaggiatore curioso, appassionatissimo bibliomane, patrono e cultore entusiasta del «Gothic Revival». In una lettera da Livorno del 1780, su cui ha portato l’attenzione Hilary Gatti in un suo bel saggio sul Camposanto di Pisa nella letteratura inglese, Beckford evoca vivacemente le sue impressioni sul monumento: «la nostra guida aprì le porte ed entrammo in un chiostro spazioso di esili pilastri di marmo bianchissimo che scintillava nel sole sostenevano gli archi del chiostro decorato con innumeri stelle e rosette in parte gotiche, in parte saracene. Strane pitture dell’inferno e del diavolo ispirate per lo più dalle rapsodie di Dante coprono le pareti di queste fantastiche gallerie. Sono stato soggiogato dalla singolarità del luogo e ho fatto il giro del chiostro almeno una cinquantina di volte scoprendoci sempre delle curiose novità […] Il posto non è triste né solenne, le arcate sono aeree, i pilastri leggeri e in tutta la scena c’è un che di capriccioso, di esotico che senza sforzo di fantasia ci si crederebbe in una terra fatata. Un giorno o l’altro penso di tornare ad ascoltare quelle musiche visionarie e a comunicare con gli spiriti perché un teatro così singolare non lo troverò nel mondo intero…».
Magico e misterioso per Beckford, il Camposanto fu diversamente sentito dall’incisore Carlo Lasinio che all’inizio dell’Ottocento ne divenne conservatore. In perfetta armonia con la sua età, che fu quella di Napoleone, Lasinio intese il Camposanto come il cuore e lo stupendo contenitore di un grande museo, di una di quelle istituzioni recenti che da pochi anni andavano travolgentemente sviluppandosi. Per questo volle accumulare in Camposanto il maggior numero di quei sarcofagi romani che a Pisa erano stati riutilizzati nel Medioevo come prestigiose sepolture. Così, ai tanti già disposti tutt’intorno alla cattedrale e qui riuniti al momento della costruzione del Camposanto, e che nel Settecento erano stati sistemati all’interno delle gallerie, aggiunse quelli che poté trovare nelle chiese di Pisa, presso i privati e nei dintorni, integrandoli con frammenti di epigrafi, lapidi, urne funerarie, ritratti e sculture classiche, unendo a questa collezione una raccolta di rilievi, capitelli, frammenti medievali ed esponendo nelle cappelle un buon numero di dipinti su tavola provenienti da chiese, conventi, oratori pisani.
Oltre a fare del Camposanto uno dei primi musei pubblici d’Europa, Lasinio mise mano a un’altra impresa dalle grandi conseguenze, vale a dire l’edizione – promossa dal celebre letterato e, come oggi si direbbe, organizzatore di cultura pisano Giovanni Rosini, autore delle Lettere Pittoriche sul Campo Santo di Pisa – di una splendida serie di incisioni che riproducono gli affreschi del Camposanto pubblicata una prima volta nel 1812. Le stampe di Lasinio diedero agli affreschi del Camposanto un’immediata rinomanza europea che andò molto al di là del numero di coloro che li avevano visti direttamente, facendone di colpo il più celebre monumento dell’antica pittura italiana, molto più famoso di quanto in quel tempo non fossero la cappella degli Scrovegni e la basilica di Assisi.
Vennero così ad avere diffusione e fama mondiale (tanto da colpire addirittura l’immaginazione di Goethe, che pure a Pisa non fu mai, nella stesura del secondo Faust) le immagini insolite, inattese, trascinanti del Trionfo della Morte, del Giudizio, dell’Inferno, della Tebaide, le Sventure di Giobbe dipinte da Taddeo Gaddi, le meravigliose leggende di santi narrate da Andrea da Firenze, da Antonio Veneziano o da Spinello, le Storie della Genesi di Piero di Puccio, le ornate architetture e i paesaggi soavi di Benozzo. La grande sequenza murale del Camposanto divenne, grazie a Lasinio, il libro per eccellenza della pittura italiana, il suo memorabile museo, la sua pratica esemplificazione.
Crebbe grandemente il numero dei curiosi, dei visitatori, degli entusiasti, dei copisti, dei disegnatori, dei pittori alla riscoperta dei primitivi, degli architetti attenti all’eccezionale repertorio di immagini architettoniche di Benozzo Gozzoli o anche dei trecentisti. Erano d’altra parte i tempi dei trionfi della poesia sepolcrale, dopo il successo fulminante delle elegie di Thomas Gray. Così il gusto dei primitivi, le tempestose attrazioni dei cimiteri, il nuovo fascino dei musei, la suggestione dei trafori gotici, si coniugarono in un solo edificio, in un monumento d’eccezione: il Camposanto di Pisa. Le Letters from Italy di Mariana Starke – una guida, diffusissima tra i viaggiatori inglesi, che cospargeva le sue descrizioni di punti esclamativi come oggi le guide fanno con gli asterischi (due punti esclamativi per la Madonna col Bambino e San Giovannino di Raffaello agli Uffizi, quattro per l’Ermafrodito della Borghese, cinque per la volta della Sistina, sei per Guido Reni) – non lo segnala con punti esclamativi, ma addirittura con una poesia, To Grief, che introduce esclamando «la solenne grandezza di questo cimitero ha fatto nascere il presente sonetto» che così si inizia: «Strutture ineguagliate che il tempo invano sfida / adatta culla ad allevar le arti rinascenti! / Fragili e leggeri come la conchiglia del nautilus / appaiono ai tuoi archi, la più splendida tra le opere del Pisano. / Celebre Camposanto, dove i potenti morti / dei giorni antichi dormono nel marmo pario».
A Pisa giungono tutti, Coleridge, Shelley, Keats, Lord Byron, Leopardi. Le torri, i campanili, i palazzi, le strade oscure e strette, le ampie piazze e l’incomparabile disporsi sul verde dei prati dei bianchi edifici marmorei attiravano l’attenzione di pittori, poeti, scrittori, architetti, intellettuali. Coleridge passa per Pisa il 22 giugno del 1806, visita il Camposanto, nella notte ha un incubo ispiratogli dal Trionfo della Morte e annota «La cosa concreta che sia più prossima in natura all’astrazione della morte è espressa dal folgorare di una luce improvvisa».

Buonamico Buffalmacco, «Giudizio universale» (particolare) 
NOMI CITATI

- Algarotti, Francesco
- Alighieri, Dante
- Ammannati, Bartolomeo
- Andrea di Bonaiuto [Andrea da Firenze]
- Antonio Veneziano
- Baracchini, Clara
- Beckford, William
- Bellosi, Luciano
- Benozzo di Lese [Benozzo Gozzoli]
- Boccaccio, Giovanni
- Bolzoni, Lina
- Buffalmacco, Buonamico
- Byron, George Gordon
- Caleca, Antonino
- Casini, Claudio
- Ciardi, Roberto Paolo
- Coleridge, Samuel Taylor
- Da Morrona, Alessandro
- Dalli Regoli, Gigetta
- Donati, Fulvia
- Dupaty, Charles-Marguerite-Jean-Baptiste Mercier
- Einaudi
- Federico II di Hohenzollern, re di Prussia
- Foggini, Giovanni Battista
- Ford, Ford Madox
- Gaddi, Taddeo
- Gatti, Hilary
- Giovanni di Simone
- Goethe, Johann Wolfgang von
- Gray, Thomas
- Keats, John
- Klenze, Leo von
- Lanfranchi, Ubaldo
- Lasinio, Carlo
- Leopardi, Giacomo
- Ludwig I, re di Baviera
- Mazzocca, Fernando
- Medici, Filippo de’, vescovo
- Murray [John Murray]
- Napoleone I, imperatore
- Palgrave, sir Francis
- Piero di Puccio
- Raffaello
- Reni, Guido
- Richetti, Paola
- Ronzani, Mauro
- Rosini, Giovanni
- Sacchetti, Franco
- Shelley, Percy Bysshe
- Spalletti, Ettore
- Spinello Aretino
- Stagi, Stagio
- Starke, Mariana
- Stefano Fiorentino
- Tadda [Francesco Ferrucci]
- Traini, Francesco
- Tribolo [Niccolò de’ Pericoli]


LUOGHI E ISTITUZIONI CITATI
- Assisi
○ Basilica inferiore di San Francesco
○ Basilica superiore di San Francesco
- Atene [Grecia]
○ Partenone
- Città del Vaticano
○ Cappella Sistina
- Firenze
○ Galleria degli Uffizi [Gallerie degli Uffizi]
- Fonthill Gifford [Regno Unito]
○ Fonthill Abbey
- Livorno
- Londra [Regno Unito]
○ The Regent's Park
- Monaco [Germania]
○ Neue Pinakothek
- Padova
○ Cappella degli Scrovegni [Cappella dell’Arena]
- Parigi [Francia]
○ Montmartre
- Pisa
○ Battistero di San Giovanni
○ Camposanto
○ Cattedrale di Santa Maria Assunta
○ Piazza dei Miracoli
○ Torre di Pisa
- Roma
○ Galleria Borghese

Collezione: Il Sole 24 Ore

Citazione: Enrico Castelnuovo, “Nella terra dell'eterno,” Enrico Castelnuovo sulla carta stampata. La Stampa e Il Sole 24 Ore, ultimo accesso il 17 dicembre 2024, https://asut.unito.it/castelnuovo/items/show/132.