Vetri di luce nei secoli bui (dettagli)
Titolo: Vetri di luce nei secoli bui
Descrizione: Introduzione al tema delle vetrate medievali: l’articolo prende avvio evocando come artisti e letterati ne abbiano subito il fascino tra fine Ottocento e inizio Novecento. Il contributo si focalizza, in particolare, sul significato simbolico della luce nel pensiero di teologi e filosofi medievali, sugli sviluppi stilistici dall’età tardoantica al gotico, sulla tecnica e sul ruolo dell’artista-artigiano, tutte problematiche, queste, ampiamente indagate nella monografia che Castelnuovo pubblicherà di lì a pochi anni: Vetrate medievali. Officine, tecniche, maestri (Torino, Einaudi, 1994; II ed. 2007).
Autore: Enrico Castelnuovo
Fonte: Il Sole 24 Ore, anno 127, n. 327, p. 23
Editore: Il Sole 24 Ore; digitalizzazione: Archivio storico dell'Università di Torino (2023)
Data: 1991-12-22
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Relazione: Inventario del fondo Enrico Castelnuovo, unità archivistica «Il Sole 24 Ore» (Archivio storico dell'Università di Torino)
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Testo:
«Il Sole 24 Ore» – Domenica 22 dicembre 1991, n. 327, p. 23
La straordinaria storia delle vetrate nel Medioevo attraverso gli artisti, le tecniche e i significati teologici ad esse connessi.
Vetri di luce nei secoli bui
di Enrico Castelnuovo*
Testimonianze radiose di una tecnica artistica che ha conosciuto nell’occidente medievale un grande momento, le vetrate hanno conservato un prestigio altissimo, indiscusso, vagamente misterioso. Il loro privilegio è quello di essere cangianti, di valersi delle innumerevoli possibilità di un elemento variabile come la luce per poter assumere aspetti diversissimi a seconda delle ore, dei giorni, delle stagioni. Lo avvertirà chi entri verso il tramonto nella cattedrale di Chartres o in quella di Bourges o in un’altra grande chiesa gotica del Nord. In alto, contro le pareti scure di cui non si distinguono più le pietre, contro le finestre, i cui limiti sono ormai invisibili, una teoria scandita e ritmata di profeti, di re, di apostoli rutilanti e translucidi appare come sospesa nel cielo, illuminata e splendente per l’ultima luce, mentre l’ombra grava e si infittisce sulla navata e si spengono nelle navi minori e nelle cappelle i colori delle vetrate più basse. Così quando un grigiore opprimente grava sulla città e le strade sono nere e lucide di pioggia, all’interno della chiesa una luce lattiginosa, ma sicura, convogliata ed esaltata dal filtro trasparente e colorato dei vetri spiove dalle finestre alte.
Poco più di un secolo fa di fronte agli esiti, insoddisfacenti del gothic revival si polemizzava sui segreti degli antichi maestri, non più conosciuti né, forse, conoscibili. Giunsero poi le evocazioni baluginanti di quell’inno a Chartres che è La Cathedrale di Huysmans apparsa nello stesso anno 1898, in cui veniva pubblicato il capolavoro di Emile Male L’art religieux du XIII siecle en France. Negli anni a cavallo tra Otto e Novecento quando Nabis e Simbolisti sperimentavano il colore puro e le superfici bidimensionali, quando la rappresentazione e la stessa concezione dello spazio in pittura subirono un mutamento radicale, il fascino delle vetrate conobbe il suo apice. Convinzioni diverse estetiche, religiose, ideologiche si sono servite di questi schermi diafani, coloratissimi e fragili e spesso la loro evocazione è stata accompagnata dagli stereotipi di un medioevo alquanto retrivo.
Se tanto profonde e variate sono le impressioni che oggi le vetrate producono su di noi si può immaginare con quanta meraviglia ed ammirazione potesse guardarle un uomo del Duecento, quanto più alto e irraggiungibile dovesse apparire il prestigio di questa tecnica a un chierico cui grandi maestri da Ugo di San Vittore a Tommaso d’Aquino andavano ripetendo che la luce è uno dei principali attributi del bello e che dai massimi rappresentanti della scolastica da San Bonaventura ad Alberto Magno udiva dire che era l’attributo stesso di Dio. Nelle vetrate doveva vedere qualcosa di sacro e insieme di favoloso, una pittura che univa il potere delle gemme decantate nei "lapidaria" – trattati sulle virtù soprannaturali delle pietre – con la proprietà meravigliosa di poter essere traversata e quasi compenetrata da una sostanza estranea, la luce, senza esserne modificata. Nella simbologia dell’architettura religiosa quale era esemplificata nei manuali di liturgia, ogni parte dell’edificio aveva un suo preciso significato. In essi le finestre invetriate da cui scende la luce che rischiara i fedeli avevano un posto di elezione: erano i dottori, erano i profeti la cui dottrina illuminava il cristiano e lo difendeva dalle tenebre del male.
Le pitture erano per i laici – cioè per gli illetterati – lezioni e scritture. Le vetrate erano scritture divine che versavano la chiarezza del vero sole – cioè di Dio – all’interno della chiesa. Si avverta la differenza tra una generica pittura che è lezione per gli illetterati e la pittura luminosa che è lezione divina per i religiosi.
Di questo primato della tecnica vitrea rispetto alla pittura, tratta il secondo libro della Schedula diversarum artium, un testo – redatto probabilmente in un monastero germanico da un enigmatico religioso che si presenta sotto il nome Theophilus – che attraverso la descrizione di procedimenti e di materiali caratterizza le maggiori tecniche artistiche in auge in quel tempo.
Theophilus dedica molti capitoli alla descrizione della produzione del vetro, come alla progettazione e alla realizzazione dei manufatti, scendendo nei particolari dalla costruzione dei forni alla soffiatura del vetro, alla formulazione di un modello per la vetrata, al taglio dei vetri di diverso colore, al loro assemblaggio, alla preparazione e all’impiego della pittura monocroma, alla ricottura, alla messa in piombo, fino alle ultime fasi della produzione. Egli è estremamente preciso e nello stesso tempo esplicito nelle sue preferenze e nelle sue valutazioni estetiche. Ciò che permette di arrivare a una prima definizione della vetrata e di quanto principalmente la caratterizza, utilizzando le stesse parole di Theophilus, è che la vetrata è una pittura translucida grazie alla quale «l’interno di un edificio può essere abbellito da una quantità di colori senza con questo impedire ai raggi del sole di penetrarvi».
Ma in che cosa consisteva materialmente una vetrata? La si potrebbe definire come una composizione di frammenti di vetro diversamente colorati riuniti secondo un preciso disegno, dipinti con una tinta monocroma stabilmente fissata da una cottura in forno, posta a chiudere una finestra. I vetri erano tenuti insieme da un reticolo di listelli di piombo e da un’armatura in ferro. Composta da frammenti di vetro colorato (o talora incolore) la vetrata è partecipe al tempo stesso di due nature: quella di una pittura fatta con il vetro, in quanto composta essenzialmente da tale materia, e pertanto simile per certi aspetti al mosaico o allo smalto, e quella di una pittura stesa sopra il vetro. Ha una funzione decorativa e architettonica, svolgendo contemporaneamente il ruolo di pittura luminosa e di schermo translucido che separa l’esterno dall’interno di un edificio.
Poiché la luce che attraversa il vetro ha una parte capitale, ne consegue che gli elementi di cui questa tecnica si avvale sono essenzialmente i vetri, la luce che da essi e viene diffusa e modificata in diverso modo a seconda del loro colore e della loro struttura, la pittura monocroma che è stesa sopra, i piombi che tengono insieme i vetri e ne sottolineano i contorni, l’armatura infine che riunisce in compartimenti i frammenti colorati e contribuisce alla loro impaginazione secondo disegni più o meno complessi.
Le prime serie consistenti di vetrate tuttora esistenti risalgono al XII secolo, tuttavia allorché Theophilus descrive questa tecnica nel suo trattato, lascia intendere chiaramente che essa ha già alle spalle un grande passato.
Sulla base di quanto emerge dalle fonti, dai documenti e dagli scarsi frammenti rimasti sappiamo che l’utilizzazione di vetrate nelle chiese è molto antica; in un primo periodo (IV-VIII secolo) le vetrate, erano formate da lastre di vetro bianco o colorato incorniciate da armature di legno o calate entro supporti di gesso, pietra o stucco. Potevano essere monocrome o policrome (come «i prati che brillano di fiori primaverili», dirà Prudenzio parlando delle vetrate della Basilica di San Paolo), trasmettere una luce dorata (Gregorio di Tours racconta di un ladro che di notte scardinò le finestre di una chiesa per farne fondere il vetro ove pensava fossero stati disciolti preziosi metalli); talora potevano essere dipinte, come è il caso di un frammento di una testa di Cristo in San Vitale di Ravenna. Queste prime vetrate non erano sostenute da armature di ferro e neanche erano composte da diversi frammenti di vetro di vari colori, tagliati secondo certe forme, tenuti insieme da piombi, dipinti e riuniti a formare immagini. A partire dal IX, o forse già dall’VIII secolo in occidente si impone un altro tipo di vetrata. Da figurazioni assai semplici, spesso puramente simboliche, si passò allora a rappresentazioni di scene e personaggi. Ne abbiamo precise testimonianze in un passo della vita di san Liudgerius vescovo di Munster scritta attorno alla metà del IX secolo dove si racconta di una fanciulla cieca che per intervento del santo recupera la vista ed indica con il dito le immagini sulle finestre illuminate dall’aurora rosseggiante. A quel tempo le vetrate non dovevano però essere molto diffuse: alla fine del X secolo infatti agli occhi di Gozbertus, abate dell’abbazia di Tegernsee in Baviera, quelle che un aristocratico committente aveva fatto eseguire per la chiesa costituivano delle straordinarie novità: «Finora le finestre delle nostre chiese – scrive l’abate ringraziando – non erano chiuse che da vecchie tele, grazie a voi per la prima volta il sole dalla chioma dorata splende sul pavimento della nostra basilica traversando i vetri dipinti con diversi colori. Una gioia inesauribile riempie il cuore di coloro che possono ammirare la straordinaria novità di quest’opera eccezionale. C’è forse altro luogo al mondo che possa vantarsi di una decorazione di questo genere?».
A partire dal XII secolo, in concomitanza con la stesura della Schedula di Theophilus, le vetrate prendono a moltiplicarsi per raggiungere la loro età d’oro con la nascita e il dispiegarsi dell’architettura gotica. Questa è basata su una struttura a scheletro portante con tendenza a concentrare la spinta su elementi determinati. La parete venne così a poco a poco a perdere alcune delle sue funzioni abbandonando il carattere di struttura d’appoggio. In un sistema di questo genere la funzione di separazione tra interno ed esterno poté essere assunta dalla vetrata. Uno dei primissimi esempi della nuova architettura è il deambulatorio della Basilica di Saint-Denis a Parigi, con la sua corona di cappelle largamente invetriate. Per la consacrazione dell’edificio il committente, l’abate Sugerius, dettò queste parole: «Era l’anno 1144 del Verbo quando fu consacrata la nuova parte absidale che congiunge ora con quella della fronte, e la chiesa rifulge perché la parte centrale è resa luminosa. Risplende infatti ciò che alla luce è armoniosamente unito e risplende l’edificio pervaso di nuova luce».
Ma lo sviluppo della vetrata non è stato meccanicamente determinato da quello dell’architettura: sarà proprio la tecnica delle vetrate a fornire anzi in molti casi una spinta determinante a questo sviluppo. Fu in primo luogo il crescente incupirsi della gamma cromatica nelle vetrate del XII secolo, dettato dal desiderio di rendere più profondi i colori per ottenere effetti più evidenti e prodigiosi, che ha contribuito all’ampliarsi delle finestre; lo straordinario prestigio acquistato dal nuovo medium ha stimolato gli architetti a tentare di risolvere i problemi tecnici della costruzione di un nuovo edificio dalle pareti translucide e colorate come le mura fatte di gemme della Gerusalemme Celeste dell’Apocalisse di San Giovanni. E questo troverà splendente realizzazione poco prima della metà del Duecento in quel capolavoro della tecnica vetraria, in quella serra preziosa, in quello scrigno gigante dalle pareti di diafano smalto che è la Sainte-Chapelle di San Luigi, a Parigi.
Interrogarsi sul posto che la vetrata occupa nella storia della produzione artistica medievale, su quale rapporto sia intercorso tra le sue vicende e quelle di altre tecniche artistiche, sulle profonde attese cui il suo sviluppo rapido, trionfale ha risposto, su come esso sia stato possibile, potrà essere una occasione di incontri tra approcci diversi. Per afferrare quale funzione sia stata attribuita ai prodotti di questa tecnica al tempo dei suoi massimi trionfi, e quale immagine se ne siano fatta i contemporanei, si dovranno esaminare, accanto alle testimonianze monumentali dirette, documenti, trattati tecnici, scritti liturgici, cronache conventuali. Tutto ciò potrà aiutare a conoscere dove, come e perché la vetrata abbia conosciuto nel medioevo un tale sviluppo. La storia delle mentalità, della sensibilità, degli atteggiamenti collettivi, quella del gusto, delle idee estetiche potranno essere di grande aiuto. La storia delle tecniche costruttive fornirà informazioni sui problemi statici posti da una architettura che si voleva sempre più diafana, la storia della tecnologia fornirà dati importanti sui materiali e i processi di produzione, la storia economica potrà indicare quali possano essere stati il peso, la portata, le incidenze di un’attività che, per volume di produzione, ebbe aspetti quasi proto-industriali, la storia dell’arte potrà dirci sino a che punto i problemi formali, compositivi, iconografici affrontati dai maestri di vetrate si situassero rispetto a quelli abbordati dagli artisti a loro contemporanei.
Di fatto se la storia delle vetrate medievali presenta tante interferenze con quelle della teologia, delle idee e, in senso più largo, delle mentalità così come con quelle della tecnologia e dell’economia, essa deve essere integrata nella più vasta storia della pittura medievale di cui, per certe epoche e certi paesi costituisce anzi il settore più importante. E qui si pone uno dei grandi problemi di questa vicenda, il rapporto tra progettisti ed esecutori tra il pittore e i maestri vetrari, rapporto di coincidenza o di diversità articolato in forme di divisione del lavoro che non bene conosciamo e che poté essere molto diverso a seconda dei luoghi e delle tradizioni. Cennino Cennini, nel capitolo Come si lavorano in vetro finestre del suo Libro dell’arte illustra una gerarchia e una superiorità dell’artista (il pittore) sull’artigiano (il maestro vetrario) che riflette la situazione italiana della fine del Trecento. Altro sarà stato il caso nella Francia o nella Germania del dodicesimo e tredicesimo secolo dove nel campo delle vetrate e apparentemente quasi esclusivamente in esse, hanno operato alcuni dei più straordinari artisti del tempo.
* Professore di Storia dell’Arte alla Scuola Normale Superiore di Pisa
Antonio da Pandino, gli episodi della Natività e dell’annunciazione tratti dalla «Vetrata del Nuovo Testamento», Milano, Duomo, fine XV secolo.
NOMI CITATI
- Alberto Magno, san
- Antonio da Pandino
- Bonaventura, san
- Cennini, Cennino
- Gozbertus di Tegernsee
- Gregorio di Tours, san
- Huysmans, Joris-Karl
- Liudgerius, san
- Mâle, Émile
- Prudenzio Clemente, Aurelio
- Suger di Saint-Denis
- Theophilus
- Tommaso d’Aquino, san
- Ugo di San Vittore
LUOGHI E ISTITUZIONI CITATI
- Bourges [Francia]
o Cattedrale di Saint-Étienne
- Chartres [Francia]
o Cattedrale di Notre-Dame de Chartres
- Milano
o Duomo [Cattedrale della Natività della Beata Vergine Maria]
- Parigi [Francia]
o Basilica di Saint-Denis
o Sainte-Chapelle
- Pisa
o Scuola Normale Superiore
- Ravenna
o Basilica di San Vitale
- Roma
o Basilica di San Paolo fuori le mura
- Tegernsee [Germania]
o Abbazia di Tegernsee
Collezione: Il Sole 24 Ore
Etichette: Vetrate
Citazione: Enrico Castelnuovo, “Vetri di luce nei secoli bui,” Enrico Castelnuovo sulla carta stampata. La Stampa e Il Sole 24 Ore, ultimo accesso il 17 dicembre 2024, https://asut.unito.it/castelnuovo/items/show/2.