Rembrandt nuove scoperte sull'artista e il suo secolo (dettagli)
Titolo: Rembrandt nuove scoperte sull'artista e il suo secolo
Descrizione:
Castelnuovo offre una panoramica sul sistema socio-economico di produzione e vendita della pittura nei Paesi Bassi tra XVI e XVII secolo, a partire dai casi di Rembrandt (1606-1669) e Vermeer (1632-1675). La narrazione inizia con un profilo Rembrandt incentrato sulla sua fortuna critica, ma l’attenzione si rivolge poi al contesto in cui operava come artista, in particolare alle modalità di lavoro, ai canali di distribuzione delle opere e al rapporto con i collezionisti, soffermandosi sulla loro estrazione sociale.
L’articolo è licenziato in occasione della pubblicazione di L'officina di Rembrandt. L'atelier e il mercato di Svetlana Alpers (Torino, Einaudi, 1990; I ed. Rembrandt’s Enterprise. The Studio and the Market, 1988); della stessa autrice, sulla «La Stampa»Castelnuovo aveva già presentato Arte del descrivere. Scienza e pittura nel Seicento olandese (Bollati Boringhieri, 1984, prefazione di Castelnuovo; I ed. The Art of Describing. Dutch Art in the Seventeenth Century, 1983). Su Vermeer sono menzionati gli studi di John Michael Montias: Artists and Artisans in Delft. A socio-economic Study of the Seventeenth Century (Princeton, Princeton University Press, 1982) e Vermeer. L'artista, la famiglia, la città (Torino, Einaudi, 1997, prefazione di Castelnuovo; I ed. Vermeer and his Milieu. A Web of Social History, 1989).
Una copia di queste pubblicazioni è presente nel fondo librario di Castelnuovo, conservato dalla Biblioteca storica d'Ateneo “Arturo Graf”.
Autore: Enrico Castelnuovo
Fonte: Tuttolibri, anno 15, n. 713, p. 8 (supplemento a La Stampa)
Editore: La Stampa; digitalizzazione: Archivio storico dell'Università di Torino (2023)
Data: 1990-07-28
Gestione dei diritti:
Quest'opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione 4.0 Internazionale
Relazione: Inventario del fondo Enrico Castelnuovo, unità archivistica «La Stampa» (Archivio storico dell'Università di Torino)
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Identificatore: Stampa_73
Testo:
Tuttolibri – Anno 15, n. 713, p. 8
(supplemento a «La Stampa» del 28 luglio 1990)
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Rembrandt nuove scoperte sull’artista e il suo secolo
In Italia si parla e si scrive poco d’arte olandese. Radi gli specialisti (ma va segnalata la recentissima pubblicazione da parte della Libreria dello Stato, dell’ottimo catalogo I dipinti olandesi del Seicento e del Settecento nelle gallerie e musei statali di Firenze, a cura di Marco Chiarini), rare le occasioni (una, del tutto inaspettata e preziosa, si troverà nelle pagine di un libro scintillante e amaro dal titolo volutamente frivolo, Falbalas, di Cesare Garboli [Garzanti] dove viene resa nota una fitta schiera di inediti appunti rembrandtiani di Roberto Longhi). Un volume pubblicato recentemente da Einaudi, L’Officina di Rembrandt di Svetana Alpers ha tuttavia fatto discutere, forse per il modo inconsueto con cui il sacrosanto soggetto era affrontato e forse, soprattutto, a causa del suo ultimo capitolo, La libertà, l’arte, il denaro dove si metteva in luce come nei comportamenti e nelle strategie di Rembrandt nei confronti di collezionisti, mercanti, committenti, nell’uso stesso che egli fece delle sue opere si manifestasse la sua adesione alla nuova economia di mercato. Così facendo l’autrice si rivelava buona allieva del padre, l’economista premio Nobel Wassili Leontieff, sottolineando come l’atteggiamento verso gli allievi, l’organizzazione e la pratica dello studio, la concezione medesima dell’autografia, o addirittura del marchio di fabbrica «Rembrandt», risentano in gran parte di questa presa di posizione.
Svetana Alpers, che oggi tra gli storici dell’arte è certo tra i più stimolanti, è abituata a muovere le acque e a suscitare obiezioni e polemiche. Un altro suo bel libro, apparso anni fa, Arte del descrivere. Scienza e pittura nel Seicento olandese, aveva sollevato grandi discussioni tra Olanda, Germania, Inghilterra e Stati Uniti, poche, purtroppo, da noi dove venne pubblicato nel 1984 da Boringhieri. Ma Rembrandt è un nome che non può mancare di suscitare passioni e partecipazione. Un nome che ha dominato la mitologia artistica dell’Ottocento.
I romantici hanno fatto di lui l’esempio più alto del genio incompreso, un antenato dei pittori maledetti mettendone in evidenza gli scacchi subiti, la vita travagliata, i fallimenti economici, il distacco, confinante con l’ostilità, che nei suoi confronti si avverte in molti testi letterari del suo tempo. Basti rileggere per questo le pagine che qui da noi nel 1686, pochi anni dopo la morte, gli dedica, nelle pagine del Cominciamento e progresso dell’arte dell’intagliare in rame, Filippo Baldinucci, francamente inquieto del suo comportamento sociale: «Con questa sua stravaganza di maniera andava interamente del pari nel Rembrante quella del suo vivere; perché egli era umorista di prima classe e tutti disprezzava. Lo scomparire che faceva in lui una faccia brutta e plebea, era accompagnato da un vestire abietto e sucido, essendo suo costume nel lavoro il nettarsi i pennelli addosso, ed altre cose fare tagliate a questa misura...».
I critici e gli artisti del diciannovesimo secolo hanno riscoperto Rembrandt leggendo nel suo agire e nella sua pittura dei tratti tanto moderni che lo proiettavano nel loro proprio tempo. Non a caso Eduard Koloff, che con il suo saggio del 1854 fu uno dei responsabili di questa resurrezione, era un ammiratore e un convinto partigiano di Delacroix che, nel 1851, aveva scritto nel suo Journal: «Si scoprirà forse una volta che Rembrandt fu un pittore ben più grande che Raffaello».
Sono state scritte le prime biografie, radunato il catalogo delle opere, raccolti i documenti. Su questi dati e su queste conoscenze, cui tante altre sono venute ad aggiungersi, la critica è intervenuta invocando maggiori cautele.
II catalogo di Rembrandt che per Hofstede de Groot (1916) contava un migliaio di dipinti è andato vieppiù riducendosi scendendo a 700, poi a 630, quindi a 420 opere. Oggi il «progetto di ricerca Rembrandt» condotto dal 1969 da una équipe olandese (del risultante Corpus of Rembrandt Painting, pubblicato dall’editore Nijhoff sono usciti a tutt’oggi tre volumi, il primo - 1982 - che riguarda gli anni dal 1625 al 1631, il secondo - 1986 - quelli dal 1631 al 1634, il terzo - 1989 - quelli dal 1635 al 1642) ne sta riducendo ulteriormente il numero attraverso una serie di esami convergenti che via via ci permettono di apprendere come alcuni di quelli che consideravamo tra i più splendidi capolavori di Rembrandt siano rimessi in dubbio e decisamente spostati nell’ambito degli allievi, così l’«Uomo dall’elmo d’oro» di Berlino-Dahlem o il «Cavaliere polacco» della collezione Frick di New York. Ma, appunto alla luce del discorso fatto dalla Alpers ne L’Officina di Rembrandt cosa significava realmente per Rembrandt autografia?
Settantacinque autoritratti
D’altra parte una crescente attenzione viene portata sui testi a lui contemporanei, cercando di identificare e chiarire i motivi e il significato di certi giudizi e di certe condanne (Jan Emmens, Rembrandt en de regels van de kunst, Rembrandt e le regole dell’arte, Utrecht, 1964), mentre sono state approfondite le tematiche religiose e le scelte culturali a queste soggiacenti (Chr. Tümpel, Rembrandt, Amsterdam 1975), è stato indagato il significato della serie ricchissima dei suoi autoritratti, almeno settantacinque tra dipinti, disegni o incisioni, un numero di gran lunga maggiore di quello che si deve a qualsiasi dei suoi contemporanei (H. Perry Chapman, Rembrandt’s Self-Portrails, Princeton 1990).
In un libro assai bello (Gary Schwartz, Rembrandt, his life, his paintings, Londra, Viking Press, 1985), che si vorrebbe veder pubblicato in Italia, è stato svelato ai nostri occhi fin nei minimi dettagli, utilizzando al meglio il ponderoso materiale documentario esistente, il contesto sociale entro cui Rembrandt agì, la sua difficile navigazione tra Leida e Amsterdam, tra la corte dello Stadholder all’Aia e i clans patrizi di Amsterdam, tra rimostranti (riformatori concilianti) e calvinisti, tra mennoniti (una variante moderata degli anabattisti) e cattolici, tra collezionisti, mercanti d’arte e corniciai, le sue amicizie, le sue relazioni, le sue strategie, la personalità e le simpatie politiche e religiose dei suoi committenti.
Il Rembrandt che si profila nelle pagine di Schwartz non è un personaggio molto simpatico; assolutamente egocentrico ha un comportamento privo di scrupoli con gli amici e i committenti e non esita a far inviare in un manicomio per indigenti una donna con cui aveva avuto per lungo tempo una relazione e che, dopo la morte di Saskia, aveva allevato il figlio Tito. Tuttavia anche Jean-Jacques Rousseau sul piano dei comportamenti familiari lascerà un po’ a desiderare e non si sa quanto i giudizi su questo terreno siano utili nella comprensione delle opere. Il fatto è che per Schwartz anche le strategie di Rembrandt erano errate: avrebbe voluto essere un Rubens ricercato dai potenti e colmato di riconoscimenti e di offerte, ma su questa via sbagliava in continuazione.
La scelta di una strategia era essenziale nelle situazioni non facili e per certi aspetti assolutamente nuove che i pittori allora vivevano. Con la secessione avvenuta nel corso della seconda metà del Cinquecento delle sette province dei paesi bassi del Nord e con il loro rifiuto della tutela spagnola, con la frattura religiosa che si viene a determinare tra le Fiandre cattoliche e le terre settentrionali in maggioranza riformate, vengono a scomparire o ad affievolirsi certi tipi di committenza e la richiesta di un certo tipo di opere. L’interno austero delle chiese riformate quali si vedono nei quadri del sublime Pieter Saenredam (cui l’infaticabile Gary Scwartz storico dell’arte ed editore ha appena dedicato, insieme allo storico Marten Jan Bok, una bella monografia, Pieter Saenredam. De Schilder in zijn tijd, 1989, di cui si preparano coedizioni internazionali e che sarebbe auspicabile veder introdotta in Italia da qualche editore d’arte raffinato e magari un po’ snob) era animato appena da qualche scultura sulle tombe, dalle ante dipinte degli organi, da qualche epitaffio inciso o dipinto, mentre le chiese di Anversa rigurgitavano letteralmente di dipinti, sculture, paramenti, stoffe, cuoi, oreficerie.
Si sviluppa in queste situazioni un floridissimo mercato descritto con stupefazione dai viaggiatori venuti d’Inghilterra o di Francia che vedono i contadini olandesi speculare in pitture come in bulbi di tulipano (per qualche anno la tulipomania, ce ne parla Simon Schama nel suo bel libro The Embarassement of Riches, tradotto in Italia dal Saggiatore [1989] sotto il titolo La cultura olandese dell’epoca d’oro, infierì come una febbre contagiosa, vide in gioco fortune e finì come una bolla di sapone nel crack del 1638).
Un fornaio collezionista
Annota nel suo diario l’inglese John Evelyn il 31 agosto 1641: «Arrivammo tardi a Rotterdam dove c’era il mercato annuale, ossia la fiera così ricca di pitture, specialmente paesaggi e "drolleries" come chiamano qui certe rappresentazioni comiche, che ne son stato sorpreso. Ne ho comprate alcune e le ho spedite in Inghilterra. La ragione dell’abbondanza di pitture e del loro modico prezzo sta nella mancanza di terre in cui impiegare il denaro, così è comune trovare un qualsiasi contadino che investe in tali beni due o tremila sterline. Le loro case ne sono piene e le vendono alle fiere con grandi guadagni». Quando un viaggiatore francese, Balthasar de Monconys, arriva a Delft nel 1663 e vuole vedere un quadro di Vermeer deve andare da un fornaio collezionista, perché il pittore non ne aveva da mostrargli. La distribuzione «democratica» della pittura sembra essere stata una realtà nelle Province Unite specie se paragonata a quanto avveniva contemporaneamente in altri Paesi come la Francia, l’Italia o l’Inghilterra. E che il contadino olandese con le mura di casa coperte di quadri di valore non fosse poi una leggenda ci afferma sulla base di inventari post-mortem un serissimo indagatore dell’economia rurale olandese come Jan de Vries (The Dutch rural economy in the Golden Age 1500/1700, Yale Un. Press, 1974).
Accanto a questa vastissima diffusione della pittura, all’esplosione di un mercato anonimo – che se da un lato stimola la produzione e dall’altro fa scendere i prezzi – numerosi sono i pittori, anche di gran classe, che devono praticare un doppio mestiere per riuscire a vivere o addirittura abbandonare la pittura per altre attività più remunerative, come avviene al grande Hobbema – nasce in questo tempo un tipo di committente-collezionista singolare per la sua modernità che procura ad alcuni pittori guadagni assai alti per ottenere il diritto d’opzione sulla loro produzione. È celebre il caso dell’ambasciatore di Svezia all’Aia che per lungo tempo pagò ogni anno molte centinaia di fiorini a Gerard Dou per ottenere questo privilegio e che inondò di pitture di Dou la regina Cristina finché questa non ne respinse al mittente un bel numero. Ma fruirono di analoghe condizioni anche Van Mieris il Vecchio ed altri protagonisti della «fijnschilderei», di quella pittura fine dall’inarrivabile minuzia straordinariamente attenta alla resa di un panno, di una stoffa, del piumaggio della selvaggina o della pelliccia di un animale, delle diverse e più preziose materie, del brillare dei metalli, del luccichio dei vetri, dello splendere dei cristalli, che incontrò il favore appassionato dei collezionisti e mise in crisi la pittura rapida, abbreviata, ai nostri occhi tanto più moderna, di Van Goyen o dello stesso Rembrandt.
Sul mercato d’arte olandese, sui suoi protagonisti le sue regole e le sue vicende, un soggetto che da tanti anni era stato completamente abbandonato dagli storici dell’arte più interessati alle ricostruzioni dei cataloghi dei singoli artisti o alle ricerche iconologiche (che in Olanda negli ultimi trent’anni hanno imperato, con esiti talora assai notevoli e contro cui si è appuntata la critica della Alpers nell’Arte del descrivere) è intervenuto di recente uno studioso dell’economia dei Paesi dell’Est riconvertitosi con successo alla storia dell’arte, John M. Montias, autore di un bel libro su Artists and artisans in Delft. A Socio-Economie Study of the Seventeenth Century, Princeton, 1982). Ed è proprio Montias, nel suo ultimo libro su Vermeer (Vermeer and his milieu. A web of social history, Princeton, 1989), a darci una travolgente microstoria, un’indagine fitta e minutissima che spazia dalla taverna dove il padre di Vermeer intesseva piccoli commerci artistici, al nonno giustiziato ad Amsterdam per aver prodotto moneta falsa al mercato del bestiame di Delft, alla casa di Pieter van Ruijven, il misterioso mecenate che anno per anno acquistò al pittore gran parte della sua produzione, al fornaio-collezionista Hendrick van Buyten, al «popist corner» di Delft in cui il cattolico Vermeer passava i suoi giorni, agli ultimi suoi drammatici giorni così laconicamente ricordati in una commovente supplica che la vedova e la suocera di Vermeer indirizzarono agli Stati Generali d’Olanda: «... le richiedenti informano rispettosamente gli Stati che Johannes Vermeer durante la guerra lunga e rovinosa non solo non poté vendere alcuna sua opera, ma neanche, a suo grande svantaggio, poté commerciare le opere di altri maestri che gli rimasero invendute. Questa situazione combinata con il gran peso finanziario causatogli dai piccoli figli e con la mancanza di una sua qualsiasi proprietà personale l’ha condotto in tanto declino e decadenza da portarlo alla follia e, prendendolo al cuore, in un giorno e mezzo dalla salute alla morte».
Alla morte di Vermeer nel 1675 Delft ha ormai cessato di essere un centro di innovazione artistica, gli artisti migliori l’abbandonano per Amsterdam e lo stesso processo di periferizzazione colpisce in quegli anni altre medie e piccole città olandesi. Alla metà del Settecento solo l’Aia o Amsterdam offrivano possibilità di sopravvivenza per un artista. Il mercato cambia gradatamente di fisionomia e a poco a poco spariscono le specializzazioni che avevano caratterizzato la pittura olandese del secolo d’oro. Nel 1717 Pietro il Grande deplorava che in Olanda non esistesse più un solo pittore di marine; la specializzazione nata con l’espandersi del mercato anonimo sparisce con il contrarsi di questo. Alla metà del Settecento non esistevano più pittori che dipingessero per il libero mercato, ciascuno doveva trovarsi un patrono, un protettore. Scrive J.M. Montias (in un saggio apparso nel 1987 su «Art History»): «La ruota aveva terminato il giro iniziatosi nel XVI secolo. Gli artisti dipendevano di nuovo dai ritratti e dalle committenze per la loro sopravvivenza. Non potevano più sopportare il rischio di esporsi alle incertezze di un mercato diventato troppo esiguo per sostenerli».
Enrico Castelnuovo
Uno dei numerosi autoritratti. Rembrandt lo ha dipinto nel 1643
NOMI CITATI
- Alpers, Svetlana
- Art History
- Baldinucci, Filippo
- Bok, Marten Jan
- Bollati Boringhieri
- Buyten, Hendrick van
- Chapman, H. Perry
- Chiarini, Marco
- Cristina, regina di Svezia
- Delacroix, Eugène
- Dou, Gerrit
- Einaudi
- Emmens, Jan Ameling
- Evelyn, John
- Garboli, Cesare
- Garzanti
- Goyen, Jan van
- Hobbema, Meindert
- Hofstede de Groot, Cornelis
- Koloff, Eduard
- Leontief, Wassily
- Libreria dello Stato
- Longhi, Roberto
- Mieris, Frans van [il Vecchio]
- Monconys, Balthasar de
- Montias, John Michael
- Nijhoff, Martinus
- Pietro I, imperatore di Russia [il Grande]
- Raffaello
- Rembrandt, Harmenszoon van Rijn
- Rijn, Titus van
- Rousseau, Jean-Jacques
- Rubens, Peter Paul
- Ruijven, Pieter van
- Saenredam, Pieter Jansz
- Saggiatore [Il]
- Schama, Simonu
- Schwartz, Gary
- Tümpel, Christian
- Uylenburgh, Saskia van
- Vermeer, Johannes
- Viking Press
- Vries, Jan de
- Yale University Press
LUOGHI E ISTITUZIONI CITATI
- Amsterdam [Paesi Bassi]
- Anversa [Belgio]
- Berlino [Germania]
o Gemäldegalerie
- Delft [Paesi Bassi]
- L’Aia [Paesi Bassi]
- Leida [Paesi Bassi]
- New York [Stati Uniti]
o The Frick collection
- Rotterdam [Paesi Bassi]
Collezione: La Stampa
Citazione: Enrico Castelnuovo, “Rembrandt nuove scoperte sull'artista e il suo secolo,” Enrico Castelnuovo sulla carta stampata. La Stampa e Il Sole 24 Ore, ultimo accesso il 17 dicembre 2024, https://asut.unito.it/castelnuovo/items/show/87.