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Titolo: La pittura riparte dalle pareti del Sancta Sanctorum

Descrizione: Castelnuovo offre un resoconto della decorazione pittorica del Sancta Sanctorum di Roma in occasione del completamento del restauro, condotto da Bruno Zanardi nella prima metà degli anni Novanta. Dei lavori dà conto una pubblicazione, menzionata nell’articolo: Sancta Sanctorum, Milano, Electa, 1995.
Una copia del volume è presente nel fondo librario dell’autore, conservato dalla Biblioteca storica d’Ateneo “Arturo Graf”.

Autore: Enrico Castelnuovo

Fonte: Il Sole 24 Ore, anno 131, n. 147, p. 29

Editore: Il Sole 24 Ore; digitalizzazione: Archivio storico dell'Università di Torino (2024)

Data: 1995-06-04

Gestione dei diritti: Licenza Creative Commons
Quest'opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione 4.0 Internazionale

Relazione: Inventario del fondo Enrico Castelnuovo, unità archivistica «Il Sole 24 Ore» (Archivio storico dell'Università di Torino)

Formato: application/pdf

Identificatore: Sole_18

Testo: «Il Sole 24 Ore» – Domenica 4 giugno 1995, n. 147, p. 29



I COLORI DEL MEDIOEVO
Raccolti in un volume i resoconti tecnici e le prime riflessioni attorno a uno dei restauri più importanti del secolo. Il ciclo è un esempio unico ed eloquente di come si dipingeva attorno al 1280, ben prima della «rivoluzione» giottesca

La pittura riparte dalle pareti del Sancta Sanctorum



di Enrico Castelnuovo
Un evento straordinario si è prodotto a Roma: uno splendido ciclo di affreschi esattamente databile agli anni del pontificato di Niccolò III (1277-1280) è riemerso all’interno del Sancta Sanctorum, l’antichissimo oratorio della dimora papale in Laterano dove erano conservate le reliquie più sacre e l’immagine più santa, quella del Salvatore che si tramandava non esser stata fatta da mani umane, l’Acheiropoielos. Di questa straordinaria vicenda testé conclusasi tratta un bel libro sfarzosamente illustrato pubblicato dall’Electa.
La cappella è molto antica ed è testimoniata dall’ottavo secolo, al tempo di papa Stefano III; era stata consolidata e arricchita sul principio del Duecento, sotto Innocenzo III e Onorio III, ma fu questo un periodo di terremoti che a più riprese colpirono la città scuotendone e danneggiandone gli edifici tanto che molti decenni dopo il pontefice Giovanni Gaetano Orsini, che aveva voluto prendere il nome da quello del patrono della chiesa di cui era titolare, San Nicola in Carcere, si assunse il compito di una radicale ricostruzione (a solo terrae) della ruinosa cappella. Il papa veniva da una delle grandi famiglie patrizie di Roma e dopo decenni di ripetute assenze e abbandoni della città da parte dei pontefici che avevano preferito risiedere a Orvieto, Viterbo o Anagni volle in tutti i modi, nelle dichiarazioni, in precisi atti politici, negli investimenti artistici, sottolineare il legame e addirittura l’identità tra la chiesa e la città e il suo rapporto con Roma personale e familiare, troppo familiare come avvertirà Dante collocandolo nella bolgia dei simoniaci e facendogli dire «...e veramente fui figliol dell’orsa - cupido sì per avanzar gli orsatti».
«Molte furono le sue virtù e soprattutto la magnificenza, da cui spinto fabbricò un sontuoso palagio per i pontefici presso San Pietro, con un ampio e vago giardino cinto da mura e torri come una città, e un altro in Montefiascone. Rinnovò egli quasi tutta la basilica vaticana...» scrive di lui Ludovico Antonio Muratori ricavando il giudizio dalle antiche fonti tra cui l’Historia Ecclesiastica scritta in Avignone pochi decenni dopo la morte del papa da un dotto domenicano, Tolomeo da Lucca. Qui, con grande precisione, venivano elencate le opere immani eseguite nel breve tempo del suo pontificato e si specificava come il pontefice avesse decorato di marmi preziosi (per latera vestita marmore) la santissima cappella e ne avesse fatto decorare le parti superiori e la volta (in superiore parte testudinis) con un bellissimo ciclo di dipinti (picturis pulcherrimis ornata).
La cappella quadrangolare, con uno stretto e lungo andito di ingresso che si apre all’estremità del lato Sud, si sviluppa in altezza in tre registri, il primo sontuosamente ricoperto di marmi e pietre pregiatissime ospita in una sorta di ampio vano che si apre nella parte dell’altare sovrastato da un mosaico il luogo delle sante reliquie, il secondo marcato da una sorta di falso triforio, da una galleria chiusa che corre lungo tutti e quattro i lati con archi trilobati che discendono su colonne tortili, e il terzo, quello dove si aprono quattro finestre chiuse da inferriate, trasformato e smagliante per l’intensissima decorazione pittorica che si stende sulle sue superfici.
Data la brevità del pontificato Orsini e la precisione delle testimonianze possiamo fissare con esattezza la data dell’impresa compiuta, per quanto riguarda la splendente tessitura marmorea del pavimento, della parte inferiore delle pareti e, forse, del mosaico, da Magister Cosmatus, che vi lasciò la firma e che era membro del celebre clan familiare di marmorari romani, e per la parte pittorica da un gruppo di maestri la cui altezza qualitativa e le cui fisionomie si rivelano ora per la prima volta.
Per la prima volta da secoli. La cappella infatti fu oggetto nel tempo di numerosi interventi. Il più radicale ebbe luogo sul finire del Cinquecento quando Sisto V fece abbattere l’antica residenza pontificia e salvando la cappella l’accorpò con una reliquia monumentale, la Scala Santa che Cristo avrebbe salito per accedere all’udienza di Pilato e che Sant’Elena avrebbe trasportato a Roma. In quel tempo vennero distrutte e totalmente sostituite le pitture esistenti nelle nicchie delimitate dagli archi del secondo registro. Oggi le immagini della Vergine dei profeti, degli apostoli, degli evangelisti, dei santi venerati di cui il sacello ospita le reliquie costituiscono un bel repertorio di opere di pittori tardo-cinquecenteschi attivi ai cantieri sistini, Andrea Lilio, Ventura Salimbeni ed altri (analizzati e distinti in questo libro da Patrizia Tosini) mentre delle antiche pitture che dovevano apparire, come nel transetto della basilica superiore di San Francesco ad Assisi, tra le colonne in un sottile gioco illusivo non resta più niente. Ma se a questo livello è impossibile recuperare alcunché della antica decorazione le quattro pareti del registro superiore e la volta ospitano un insieme pittorico assolutamente sorprendente che agli inizi del Cinquecento era stato interamente ridipinto, stravolgendone gli effetti spaziali con ornate incorniciature illusorie e trasformando completamente, ma con una certa fedeltà, scene, elementi, personaggi, volti, vesti, membra.
Ci si può chiedere cosa abbia indotto i pittori sistini a distruggere le pitture antiche e cosa invece quelli del tempo di papa Borgia a risparmiarle pur mettendole al gusto del tempo, e potremmo ricordare che un simile atteggiamento, seppur meno radicale, ebbe a Trento il Cardinal Clesio che conservò, pur facendole ridipingere dal Fogolino, le splendide pitture murali di Torre Aquila, un capolavoro del gotico internazionale e non altrimenti si agì sotto l’imperatore Massimiliano per i cicli cavallereschi di Runkelstein presso Bolzano. Non so se da questi dati si possa ricavare qualche indicazione sugli atteggiamenti riguardanti la conservazione e il restauro nel primo Cinquecento, ma il problema, rispetto a quelli straordinari emersi durante il restauro del Sancta Sanctorum è in fondo secondario.
L’importanza della cappella e della sua decorazione murale fu sempre riconosciuta e negli ultimi tempi si sono moltiplicati gli studi su questi dipinti o piuttosto su quanto si poteva vedere e immaginare di essi. Distrutti i grandi cicli petriani al momento della distruzione dell’antica basilica (ne rimangono disegni cinquecenteschi e pochi frammenti dei quali nel 1969 Irene Hueck diede una illuminante lettura), distrutti dall’incendio ottocentesco le grandi serie di ritratti papali di San Paolo fuori le Mura (gli scarsi resti ne sono stati illustrati nel 1973 da Julian Gardner) quanto rimaneva della grande pittura romana della seconda metà del Duecento era nel Sancta Sanctorum. Pur in condizioni assai difficili ne tentarono una analisi resa possibile dalla buona campagna fotografica eseguita dal Gabinetto Fotografico Nazionale, Jens T. Wollesen (1981) e Luciano Bellosi (1990).
La posta era molto alta: che cos’era Roma nel tardo Duecento? Cosa aveva significato il passaggio di Cimabue che era in città nel 1272? Quali erano la cultura, l’originalità e le capacità degli artisti romani? E – in fondo in fondo – la nuova pittura, cui Giotto avrebbe dato una forma e una autorità inarrestabili aveva avuto le sue radici a Firenze o a Roma? Gli studi, le analisi e le discussioni su Assisi, su questo cantiere chiave della seconda metà del Duecento dove negli anni 70 alle vetrate e alla prima decorazione della basilica superiore avevano lavorato, proponendo nuovi modelli e iniettando nuova linfa, maestranze transalpine non avevano risolto la questione (ammesso che la si potesse risolvere), forse era a Roma che bisognava trovare una risposta. Ora ecco che la necessità, che si profila fin dagli anni 80, di procedere a dei restauri del ciclo del Sancta Sanctorum portò a scoprire che sotto la ridipintura più tarda la decorazione niccoliana sussisteva pressoché intatta.
Data l’importanza del caso venne presa una decisione inabituale che cancellò un momento significativo nella storia del ciclo e della sua fortuna, quella di procedere a un intervento radicale che eliminasse la ripresa del primo Cinquecento (storicamente rilevante, ma non comparabile a quanto celava) pur conservandone ridotte, ma significative testimonianze e riportasse alla luce le antiche pitture. Con il sussidio di uno sponsor – la Parmacotto Spa – il restauro – delle pitture murali duecentesche, di quelle tardo-cinquecentesche, dei mosaici, del pavimento e del paramento lapideo – fu intrapreso e portato a termine da Bruno Zanardi.
I risultati furono clamorosi, ritornava alla luce un grande ciclo della pittura duecentesca romana, e che ciclo. Qualcosa di insolito, di inaspettato e per lo più di una qualità eccezionale. Ho fatto male a chiamarlo ciclo. Si tratta in realtà di otto scene isolate – tranne le prime che sono strettamente collegate tra loro – due per ogni parete, divise dalla finestra che si apre in ognuno dei quattro lati, e che hanno rapporto con la cappella, con le reliquie ivi contenute e con il committente, il papa Niccolò III. Le singole scene inquadrate e delimitate da un bordo come fossero nei quadri indipendenti inseriti nella parete sono campite su un profondo fondo azzurro, nel resto della parete il fondo è di un rosso profondo, come in certe pitture parietali romane. Sopra ogni scena una lunetta a fondo verde, incorniciata da un fregio di delfini dai corpi esilissimi che si trasformano in tralcio, ha al suo centro il classico motivo di un ventaglio. In alto, nei pennacchi ai lati dell’estremità delle finestre, due angeli in volo di nuovo su fondo azzurro.
Il pontefice è rappresentato sulla parete Est, quella dell’altare mentre accompagnato da due santi per eccellenza tutori della chiesa di Roma, Pietro e Paolo, presenta un modellino della cappella al Cristo che troneggia accompagnato da due angeli su uno splendido scranno marmoreo. Il volto del papa (secondo Tolomeo da Lucca de pulchrioribus clericis mundi, uno dei più bei chierici del mondo) è trattato con attenzione indicibile, per la prima volta nella storia della pittura medievale siamo di fronte a un ritratto individualizzato-personale, attuale. Il modellino della cappella è per precisione descrittiva un altro ritratto, di un monumento questa volta. Il trono del Cristo con il suo schienale marmoreo arrotondato ad esedra coronato alle estremità da due globi tridimensionali è di una profondità impressionante. Queste due scene sono strettamente collegate tra loro in modo e non rappresentano che un solo episodio, l’offerta della cappella, sulle altre pareti sono a Sud il Martirio di San Pietro e quello di San Paolo, a Ovest quelli dei due santi diaconi. e protomartiri Stefano e Lorenzo, a Nord il martirio di Sant’Apollonia e – omaggio al Pontefice e al suo titulus – un miracolo di San Nicola.
Maestri diversi, riconoscibili per caratteri, modi e livello qualitativo hanno lavorato a questo insieme. La straordinaria qualità della parete orientale quella dove il papa offre la cappella al Redentore non si ritrova in tutte le altre scene, ma le scelte di fondo non sono profondamente diverse. In realtà sembrano convivere esperienze disparate e un repertorio variatissimo di modelli. I richiami classici o paleocristiani sono presenti ovunque, nei motivi di tralci, di foglie d’acanto, di vasi, di uccelli che si affrontano, nei ventagli multicolori, nel fregio ad ovuli dei costoloni, nel rosso degli sfondi, ma accanto a questi altri elementi sono profondamente bizantineggianti, si richiamano anzi a precisi modi e schemi della pittura bizantina tardo-comnena, nei panneggi svolazzanti e ghiribizzosi degli angeli in alto per esempio, mentre in certi casi – come nel carnefice del martirio di San Paolo – siamo di fronte a motivi neoellenistici che ci ricordano fasi precedenti della pittura e della miniatura bizantina. Ma il panorama dei rimandi e dei suggerimenti non si ferma qui. Una graffiante e violenta espressività fa pensare in più di un caso che il passaggio romano di Cimabue avesse lasciato nella città tracce profonde come a suo tempo aveva suggerito Bellosi. Né mancano né ricordi della pittura romana del più antico Duecento, né stilemi federiciani – lo nota opportunamente Serena Romano – e spunti gotici, presenti del resto nell’architettura della cappella voltata a costoloni, bene analizzata da Julian Gardner che sulla penetrazione del nuovo stile a Roma aveva già offerto contributi di gran rilievo.
Da tutti i punti di vista siamo di fronte a un’impresa importantissima, a un autentico nodo nella storia della pittura italiana. Riunire e mobilitare in pochissimo tempo (il pontificato di Niccolò III durò appena tre anni) in una città dove da decenni le imprese artistiche languivano, maestri e botteghe a lavorare contemporaneamente a una serie di iniziative di ampia portata fu da parte del pontefice una scommessa riuscita di cui solo ora possiamo cominciare a misurare la rilevanza. Il confluire di motivi e modelli tanto vari che vanno da temi e forme antiche a schemi bizantini a moderne suggestioni gotiche mostra non solo la presenza di maestri diversi (è estremamente probabile che le iniziative niccoliane abbiano provocato l’arrivo a Roma di artisti di varie provenienze ed esperienze un po’ come qualche decennio dopo succederà in Avignone) ma la precisa volontà di una renovatio Romae ricercata anche nell’attingere a un repertorio che fosse manifestamente legato al grande passato della città e nella rievocazione per immagini dei monumenti della città in forme che non erano quelle stereotipate dei "monasteri-ministeri" bizantini come scherzosamente li chiamava Roberto Longhi.
Serena Romano, cui si devono importanti interventi (tra i quali un volume imponente e ricco di sorprese come Eclissi di Roma, Roma 1992) sulla pittura ad Assisi e a Roma nel Due e nel Trecento ha bene illustrato le maniere e le forme dei maestri attivi al Sancta Sanctorum, Maria Andaloro ha esplorato il mosaico nella volta del santuario della cappella discutendone i modi e la datazione, da alcuni ritenuta più antica di quella degli affreschi e concludendo per una contemporaneità delle due imprese, Bruno Zanardi accanto alla relazione di restauro ha sviluppato un discorso oltremodo interessante sull’uso di modelli, patrons, sagome a scala uno a uno, nella pittura medievale, un modus operandi che chiarisce certi aspetti delle sorprendenti presenze e delle ripetizioni non sempre a prima vista avvertibili – tanto è grande la diversità degli artisti che usano i medesimi cartoni – delle pitture.
I grandi cantieri orsiniani – e quello del Sancta Sanctorum è l’unico di cui conserviamo un’adeguata testimonianza, ma che fu anche il più segreto e il più impenetrabile – dovettero essere luoghi di formazione, di maturazione, di confronto per i maestri che domineranno a Roma sullo scorcio del Duecento come Jacopo Torriti – che qui è certo presente di persona – o lo stesso Pietro Cavallini e di certo furono importanti per la crescita di Giotto. Il rapporto di questo cantiere con quello riunito nella chiesa superiore di San Francesco di Assisi – impressionanti sono i punti di contatto con l’opera assisiate del grande "Maestro della Cattura" – potrà ora essere esaminato partendo da basi concrete. E speriamo che la discussione non si avviti nella ricorrente questione Roma o Firenze che rischia di prendere i toni, la perentorietà, la radicalità, e talora la belluinità, di una sfida calcistica.

Aa.Vv., «Sancta Sanctorum», Electa, Milano 1995, pagg. 286, L. 160.000.

In alto una delle quattro pareti affrescate del Sancta Sanctorum a Roma. Qui accanto un particolare del ciclo dopo il recente restauro. (Foto Musei Vaticani) 
NOMI CITATI

- Alessandro VI, papa [Roderic Llançol de Borja]
- Alighieri, Dante
- Andaloro, Maria
- Bellosi, Luciano
- Cavallini, Pietro
- Cimabue
- Clesio, Bernardo
- Electa
- Fogolino, Marcello
- Gabinetto Fotografico Nazionale
- Gardner, Julian Richard
- Giotto
- Hueck, Irene
- Innocenzo III, papa [Lotario dei Conti di Segni]
- Lilio, Andrea
- Longhi, Roberto
- Maestro della Cattura
- Magister Cosmatus
- Massimiliano I d’Asburgo, imperatore del Sacro Romano Impero
- Muratori, Lodovico Antonio
- Niccolò III, papa [Giovanni Gaetano Orsini]
- Onorio III, papa
- Parmacotto Spa
- Romano, Serena
- Salimbeni, Ventura
- Sisto V, papa [Felice di Peretto da Montalto]
- Stefano III, papa
- Tolomeo da Lucca [Bartolomeo Fiadoni]
- Torriti, Jacopo
- Tosini, Patrizia
- Wollesen, Jens T.
- Zanardi, Bruno


LUOGHI E ISTITUZIONI CITATI
- Anagni [Frosinone]
- Assisi [Perugia]
o Basilica superiore di San Francesco
- Avignone [Francia]
- Bolzano
o Castel Roncolo [Schloss Runkelstein]
- Città del Vaticano
o Basilica di San Pietro
o Palazzo Apostolico in Laterano
o Palazzo Apostolico in Vaticano
- Firenze
- Montefiascone [Viterbo]
o Rocca dei Papi
- Orvieto [Terni]
- Roma
o Basilica di San Nicola in Carcere
o Basilica di San Paolo fuori le mura
o Laterano
o Sancta Sanctorum
o Scala santa
- Trento
o Castello del Buonconsiglio
 Torre Aquila
- Viterbo

Collezione: Il Sole 24 Ore

Citazione: Enrico Castelnuovo, “La pittura riparte dalle pareti del Sancta Sanctorum,” Enrico Castelnuovo sulla carta stampata. La Stampa e Il Sole 24 Ore, ultimo accesso il 17 dicembre 2024, https://asut.unito.it/castelnuovo/items/show/113.