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Titolo: Un profeta di nome Van Gogh

Descrizione: Castelnuovo commenta la vendita all’asta da parte di Sotheby’s degli Iris di Vincent Van Gogh (11 novembre 1987), soffermandosi sul prezzo raggiunto – 53,9 milioni di dollari – che risulta esorbitante se paragonato con le quotazioni degli altri pittori della stessa generazione, nonché col mancato riconoscimento dell’artista durante tutta la sua vita. Per individuare una possibile ragione, richiama il concetto di “campo artistico” elaborato da Pierre Bourdieu, inteso come il sistema sociale in cui artisti, critici, mercanti d’arte e pubblico interagiscono e concorrono nel giudizio: lo straordinario successo di Van Gogh e il vertiginoso aumento del valore economico delle sue opere sarebbe quindi dovuto all’aura venutasi a creare attorno alla sua figura di genio incompreso.
Nel 1990 l’opera è stata restituita alla casa d’aste dall’acquirente, Alan Bond, e quindi comprata dal J. Paul Getty Museum di Los Angeles.

Autore: Enrico Castelnuovo

Fonte: La Stampa, anno 121, n. 270, p. 3

Editore: La Stampa; digitalizzazione: Archivio storico dell'Università di Torino (2023)

Data: 1987-11-17

Gestione dei diritti: Licenza Creative Commons
Quest'opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione 4.0 Internazionale

Relazione: Inventario del fondo Enrico Castelnuovo, unità archivistica «La Stampa» (Archivio storico dell'Università di Torino)

Formato: application/pdf

Identificatore: Stampa_58

Testo: «La Stampa» – Anno 121, n. 270 – Martedì 17 novembre 1987, p. 3


Dopo la vendita delle «Iris» a 65 miliardi

Un profeta di nome Van Gogh


«Van Gogh? Un génie sans talent». L’epitaffio impietoso, molto parigino non ha certo avuto ripercussioni negative sulla cote del pittore le cui tele arrivano a strappare prezzi sempre più alti superando ogni previsione, battendo ogni record. Resta da interrogarsi, una volta di più, sulle ragioni di questa inarrestabile surenchère. Non sappiamo chi abbia acquistato il quadro per 65 miliardi. Si tratterebbe – si dice – di persona di lingua inglese apparentemente stabilita in Europa. Come speculazione sembra un po’ azzardata per uno di quei fondi di pensioni che in altre occasioni sono già apparsi arditamente e sfarzosamente sul mercato artistico internazionale. E se si trattasse di un magnate giapponese che ne ha negoziato l’acquisto attraverso un intermediario?
Gli acquirenti del Sol Levante sono noti per la spregiudicatezza e la munificenza con cui hanno riunito le loro splendide collezioni d’arte moderna europea. Ne sapremo forse più avanti qualcosa di più, in ogni modo è chiaro che i prezzi già altissimi realizzati in precedenza hanno avuto come risultato di fare ulteriormente rimbalzare le offerte, mentre la crisi delle Borse stimolava investimenti diversificati. Ma perché proprio Van Gogh è tanto più quotato di un Degas o di un Seurat, per parlare di due génies pieni di talent? Da molto tempo Van Gogh è diventato più di ogni altro artista il simbolo della pittura moderna, l’esempio di una vita totalmente impegnata nell’arte e sofferta fino al suicidio, dell’unione stessa tra arte e moralità. Van Gogh è visto come il più puro e il più santo dei predicatori, il più geniale degli autodidatti, l’artista più sfortunato, più sofferente, più infelice.
Una figura paradigmatica. I quadri della sua grande stagione, quel 1889 che è l’anno di Arles, dell’ospizio di Saint-Rémy, delle Saintes-Maries-de-la-Mer (è appunto l’anno delle Iris vendute mercoledì scorso da Sotheby’s) sono la quintessenza del colore, quelli dove la linea ondulante tende spasmodicamente a comunicare, con una urgenza che sfocia nell’ansia, le emozioni più esaltanti. Li avvertiamo come dei quadri epocali.
E d’altra parte al di là di ciò che sentiamo di fronte a queste tele – e le nostre sensazioni e impressioni non sono certo «innocenti» ma nascono entro un preciso contesto di cui occorre prendere coscienza – il «caso Van Gogh» si presenta ancora una volta come esemplare per rispondere agli interrogativi che si pongono i sociologi della cultura, questi esploratori dei meccanismi e dei modi di produzione simbolici della società in cui viviamo. E – per esempio – a una domanda come quella formulata da Pierre Bourdieu che di questi esploratori dei meccanismi simbolici è uno dei più intelligenti: «Quali sono le condizioni economiche e sociali della costituzione di un "campo artistico" fondato sulla fede (la croyance) nei poteri quasi magici che sono riconosciuti all’artista moderno, vale a dire sul feticismo del "maestro" e dell’opera del maestro — ciò che sul piano economico si traduce nel valore accordato all’opera?», la leggenda di Van Gogh creata dai vari agenti del «campo artistico», dai critici, dagli storici dell’arte, dai mercanti e dai diversi intermediari, dai conservatori di museo, dai collezionisti, è l’esempio eloquente della creazione di una «fede produttrice di valori».
Qualsiasi religione ha bisogno di profeti e di eroi. E la moderna religione dell’arte ha trovato – e ha costruito – il suo eroe nella figura tragica e appassionata di questo Icaro moderno. Così lo chiamò Francesco Arcangeli in un bel saggio di tanti anni fa (L’Alfabeto di Van Gogh, 1952) che vale la pena di rileggere.
Enrico Castelnuovo

Vincent van Gogh: «Autoritratto» (1887, particolare) 
NOMI CITATI
- Arcangeli, Francesco
- Bourdieu, Pierre
- Degas, Edgar
- Seurat, Georges-Pierre
- Sotheby’s
- Van Gogh, Vincent


LUOGHI E ISTITUZIONI CITATI
- Arles [Francia]
- Saint-Rémy de Provence [Francia]
o ospedale psichiatrico Saint-Paul-de-Mausole
- Saintes-Maries-de-la-Mer [Francia]

Collezione: La Stampa

Citazione: Enrico Castelnuovo, “Un profeta di nome Van Gogh,” Enrico Castelnuovo sulla carta stampata. La Stampa e Il Sole 24 Ore, ultimo accesso il 17 dicembre 2024, https://asut.unito.it/castelnuovo/items/show/72.