Beta!
Passa al contenuto principale

Titolo: Il gusto è mobile

Descrizione: Recensione dell’opera: Francis Haskell, Le metamorfosi del gusto. Studi su arte e pubblico nel XVIII e XIX secolo, Milano, Bollati Boringhieri, 1989 (I ed. Past and Present in Art and Taste. Selected Essays, New Haven-London, Yale University press, 1987). Fornendo un sunto dei saggi riuniti nel volume, dedicati a eruditi, collezionisti, conoscitori e storici dell’arte, Castelnuovo riconosce che questa raccolta rispecchia limpidamente l’interesse di lunga durata di Haskell per il campo della ricezione delle opere e delle sue ricadute sulla produzione artistica.
Una copia dell’opera è presente nel fondo librario di Castelnuovo, conservato dalla Biblioteca storica d'Ateneo “Arturo Graf”.

Autore: Enrico Castelnuovo

Fonte: Tuttolibri, anno 15, n. 673, p. 9 (supplemento a La Stampa)

Editore: La Stampa; digitalizzazione: Archivio storico dell'Università di Torino (2023)

Data: 1989-10-14

Gestione dei diritti: Licenza Creative Commons
Quest'opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione 4.0 Internazionale

Relazione: Inventario del fondo Enrico Castelnuovo, unità archivistica «La Stampa» (Archivio storico dell'Università di Torino)

Formato: application/pdf

Identificatore: Stampa_66

Testo: Tuttolibri – Anno 15, n. 673, p. 9
(supplemento a «La Stampa» del 14 ottobre 1989)



Il gusto è mobile

Critici, collezionisti e mercanti nel saggio di Haskell



Una raccolta di saggi è un po’ come una galleria in cui siano accostate un certo numero di opere, quadri, sculture, mobili, porcellane, disegni, acquistate in diversi luoghi e in differenti momenti. Ci sono, certo, collezioni e collezioni, le une possono denunciare incoerenza e casualità nelle scelte, in altre invece, malgrado le differenze di tempo e di spazio, di tecniche e di materie, i singoli pezzi svelano le predilezioni e gli interessi di chi li ha riuniti, suggeriscono un disegno.
Il paragone è un po’ vieto, ma ha un nobile ascendente (la lettera di Galileo in cui parla, confrontandoli proprio con due diversi tipi di galleria, dei poemi dell’Ariosto e del Tasso) e viene spontaneo leggendo Le Metamorfosi del Gusto (Bollati Boringhieri, pp. XVII - 404, L. 65.000), traduzione italiana, ma con notevoli aggiunte, variazioni e novità, di Past and Present in Art and Taste (Yale U.P. 1987).
Nel volume il brillante storico dell’arte oxoniense, ben conosciuto e apprezzato in Italia (dove i suoi libri sono stati tempestivamente tradotti e dove, assai prima che in Inghilterra, un gruppo di suoi scritti è stato riunito in volume sotto il titolo Arte e Linguaggio della Politica - Spes, Firenze 1978), ha raccolto tredici saggi apparsi negli ultimi vent’anni.
Nella varietà e diversità dei soggetti, e anche se nella prefazione l’autore, con britanno understatement, sostiene che la sola unità attribuibile al libro sarebbe una serie di negazioni (rifiuto di accogliere recensioni nella raccolta, rifiuto di occuparsi di soggetti trattati nel suo fondamentale Mecenati e Pittori (Firenze, Sansoni 1966) e quindi di arte italiana del Sei-Settecento), si avverte un disegno predominante che collega scritti tenuti a battesimo sotto soli diversi in occasioni disparate.
Come il collezionista incontra le sue opere a Tolosa o a Rotterdam, a Parigi, a Londra, a Firenze, a Vienna, a Colonia così i saggi di Haskell sono nati sotto diverse latitudini, un simposio ad Austin, una conferenza a Schio, un congresso a Roma, l’inaugurazione di un museo a Parigi, una lecture londinese, una lezione alla New York University.
Un primo elemento unificante è lo stile, la scrittura, la tecnica narrativa, il gusto magistrale del dettaglio: Francis Haskell tratta i suoi soggetti in modo particolarmente accattivante e tale da suscitare nel lettore una immediata curiosità anche perché la sua galleria è, nella migliore tradizione anglosassone, ricca di ritratti assai singolari, perché la storia che scrive è una storia di uomini molto peculiari. Ci sono Crozat e Mariette, due grandi conoscitori settecenteschi protagonisti di un’impresa difficilissima e (economicamente) rovinosa, quella di creare il primo libro d’arte, c’è il celebre Gibbon e il suo emulo, Jean-Baptiste-Louis-Georges Seroux d’Agincourt un ricchissimo ed eruditissimo fermier géneral che, affascinato dalle tesi del Decline and Fall sul crollo dell’impero romano, volle preparare, con lunghe ricerche e l’aiuto di una pleiade di disegnatori, una storia del declino e della caduta dell’arte classica scrivendo così, alla vigilia della Rivoluzione francese, la prima storia dell’arte medievale (che poi ebbe tutte le pene del mondo a pubblicare).
C’è il sedicente barone d’Hancarville, ladro avventuroso, stupendo parlatore, archeologo stravagante quanto entusiasta, curioso di simbologia, eruditissimo pornografo, sapiente illustratore dei più bei vasi greci. E dopo questi uomini dell’ancien regime c’è il giovane Delacroix alla ricerca di un soggetto di storia moderna con cui imporsi al Salon, c’è Morris Moore, un bilioso esteta cui l’acquisto nel 1850 ad un’asta di Christie’s dello splendido Apollo e Marsia (oggi attribuito al Perugino) cambiò letteralmente la vita spingendolo ad affrontare l’establishment storico-artistico per rivendicare l’autografia raffaellesca del dipinto che vendette al Louvre nel 1883, avendo consumato gran parte dei suoi anni in una delle prime spettacolari contese della storia dell’arte.
Accanto a quest’inglese, appassionato e litigioso fino al fanatismo, che viaggia per l’Europa con il suo quadro per esporlo in tutte le capitali artistiche attaccando con ferocia la camarilla anglo-tedesca che gliene contesta l’attribuzione e finisce i suoi giorni arroccato a Roma in via Cavour, un più placido, ma non meno profilato personaggio è Khalil Bey, un diplomatico turco mondano e misterioso, collezionista, gran giocatore e amico di letterati che riunisce nella Parigi del secondo impero una spettacolosa collezione di pittura moderna francese per poi sparire, rovinato dal gioco, nelle nebbie del Bosforo.
Segue poi il riservato e tenace Benjamin Altman, figlio di un piccolo negoziante ebreo bavarese, che accumulò una enorme fortuna creando grandi magazzini a New York, cliente fedele ma esigente di Duveen, oculato e risoluto collezionista che lasciò al Metropolitan – il museo della città cui doveva la sua fortuna – la sua memorabile raccolta a condizione che non venisse smembrata ma conservata intatta in alcune sale, le Altman rooms, che tuttora costituiscono il cuore del grande complesso. Per finire nel nostro tempo con un profilo, incantevole per leggerezza, vivace, ammirato, commosso, di Benedict Nicolson, figlio di Vita Sackville-West, una leggendaria protagonista del circolo di Bloombsbury, e di Harold Nicolson, storico dell’arte di gran livello e dalle moltissime curiosità, per trent’anni direttore del «Burlington Magazine».
L’aver rivolto la propria attenzione soprattutto agli eruditi, agli storici dell’arte, ai conoscitori, ai collezionisti significa che i problemi che attraggono Francis Haskell riguardano più il versante della ricezione che quello della produzione artistica. O meglio che riguardano quest’ultima da un particolare punto di vista, che è quello delle potenzialità e delle capacità che hanno avuto le opere d’arte, continuamente rilette e reinterpretate, di creare immaginari diversi (Il «Concerto campestre» di Giorgione e i suoi ammiratori). Attento ai reciproci condizionamenti della ricezione e della produzione Haskell esplora il ruolo che certe istituzioni hanno avuto nel campo artistico, che ci parli dell’origine di uno strumento di conoscenza visiva il cui sviluppo e la cui diffusione avranno un peso fondamentale nel determinare i modi con cui guardiamo alle opere d’arte (La difficile nascita del libro d’arte), che ci sveli nuovi campi della iconografia indagando come, perché e in che modi i pittori dell’Ottocento abbiano rappresentato le vicende del passato orientando potentemente e addirittura creando con le loro opere un immaginario storico che ha funzionato per generazioni (La costruzione del passato nella pittura del secolo XIX un testo importante già apparso nel volume Spes) o che metta a fuoco le diverse funzioni del museo che nell’Ottocento diviene, con la sua sola presenza, non solo un interlocutore, ma un ideale committente per l’artista il quale dipinge un quadro in un certo modo, in un certo formato, con un certo soggetto, proprio in vista di una sua auspicata destinazione museale (Artisti e musei nell’Europa del secolo XIX).
Non si parla dunque solo degli artisti, ma dei pubblici (sottotitolo dell’edizione italiana: Studi su arte e pubblico nel XVIII e XIX secolo) e dei loro atteggiamenti, dei critici, degli storici dell’arte, dei mercanti, dei collezionisti, delle istituzioni. Siamo, insomma di fronte a una proposta di storia sociale dell’arte senza il gergo sociologico, senza gli accostamenti abituali e, spesso, come Haskell si compiace di dimostrare, forzosi tra gruppi sociali e preferenze formali, tra scelte politiche e scelte stilistiche.
E praticando una forma di storia sociale si arriva a una questione cruciale, quella del rapporto a lungo difficile tra il pubblico, o almeno una sua grandissima parte, e l’arte moderna. Perché – si chiede Haskell – mentre Giotto e Giorgione, Parmigianino e Caravaggio, Watteau e David, «tutti straordinariamente nuovi ai loro tempi, furono tutti salutati con entusiasmo», Constable e Turner, Ingres e Delacroix, Millet e Courbet, Manet, Gauguin, Van Gogh, Seurat «dovettero scontrarsi con un odio selvaggio che per noi è sorprendente?». Perché quell’intolleranza selvaggia, quella rabbia fanatica che Zola descrive ne L’Oeuvre? Perché «la gente allora scoppiava in grandi risate davanti a un paesaggio, perdeva la pazienza davanti a una chitarra»? (I nemici dell’arte moderna).
Qualche decina d’anni fa avremmo avuto una risposta sicura, meno oggi che apprezziamo imparzialmente Manet e Couture, Gérôme, Meissonier e Degas. Opportunamente Haskell rifiuta di seguire una pista sola, quella, ad esempio, della responsabilità che ebbero nell’amore per la pittura «rifinita» e quindi nell’odio per le abbreviazioni, per il tocco rapido, per l’originalità, il nuovo pubblico borghese e i nuovi committenti che avevano soppiantato gli amatori dell’ancien regime, mostrando che tra gli apprezzatori, gli acquirenti e i collezionisti di questo genere di pittura c’erano proprio fior di aristocratici. Tra le ragioni della rottura, si scopre con meraviglia, non c’era solo, come potevamo credere, quella della eccessiva modernità, uno dei rimproveri era anzi quello di passatismo: Delacroix era attaccato per gli impasti e i tocchi settecenteschi, Ingres per essere medievaleggiante.
Ma il punto più scottante è un altro: è che venne allora coinvolta una sfera delicatissima, quella della sensibilità politica che poco che fare ha con le preferenze estetiche. Con il ricordo sempre vivo e bruciante dei traumi rivoluzionari, si cominciarono a collegare mutamento stilistico e rottura politica e sociale, a leggere l’uno, senza alcun rapporto con le singole opinioni politiche degli artisti, come annunciante l’altra. Questo legame che venne poi accettato con entusiasmo e addirittura inflazionato nella letteratura storico-artistica e nella stessa coscienza dei pittori, ebbe effetti dirompenti durante tutto l’Ottocento. Ostilità e ostracismo finirono per creare negli artisti un certo tipo di convinzioni e di comportamenti. La persecuzione e l’incomprensione, l’isolamento furono allora assunti, teorizzati e ricercati dall’avanguardia.
Proprio perché Haskell non ama gli accostamenti e le spiegazioni tradizionali e rigide può proporci una lettura che tiene conto di un molto maggior numero di fattori e che di fatto ci riporta a un nodo cruciale per l’arte moderna, quello tra arte e politica. L’attuale intemperante entusiasmo di certi critici revisionisti francesi nei confronti della riabilitata pittura dei «Salons» (in fondo Manet... il vero pittore di quel tempo è Couture, o Gérôme, o Meissonier...) non ci riporta ancora a questo problema?
Enrico Castelnuovo

[Accompagna l’articolo una fotografia di Francis Haskell, senza didascalia]

NOMI CITATI

- Altman, Benjamin
- Ariosto, Ludovico
- Bloomsbury Group
- Bollati Boringhieri
- Burlington Magazine [The]
- Caravaggio [Michelangelo Merisi]
- Constable, John
- Couture, Thomas
- Crozat, Pierre
- David, Jacques-Louis
- Degas, Edgar
- Delacroix, Eugène
- Duveen, Joseph
- Galilei, Galileo
- Gauguin, Paul
- Gérôme, Jean-Léon
- Gibbon, Edward
- Giorgione
- Giotto
- Haskell, Francis
- Hugues d’Hancarville, Pierre-François, barone d’Hancarville
- Ingres, Jean-Auguste-Dominique
- Khalil-Bey [Halil Şerif Pascha]
- Manet, Édouard
- Mariette, Pierre-Jean
- Meissonier, Ernest
- Millet, Jean-François
- Moore, Morris
- Nicolson, Benedict
- Nicolson, Harold
- Parmigianino [Francesco Maria Mazzola]
- Perugino
- Sackville-West, Victoria Mary
- Sansoni
- Seroux d'Agincourt, Jean-Baptiste-Louis-Georges
- Seurat, Georges-Pierre
- SPES
- Tasso, Torquato
- Turner, Joseph Mallord William
- Van Gogh, Vincent
- Watteau, Antoine
- Yale University Press
- Zola, Émile


LUOGHI E ISTITUZIONI CITATI
- Austin [Stati Uniti]
- Bosforo [Turchia]
- Colonia [Germania]
- Firenze
- Londra [Regno Unito]
- New York [Stati Uniti]
o Metropolitan Museum of Art
▪ Altman rooms
o New York University
- Parigi [Francia]
o Musée du Louvre
- Roma
o via Cavour
- Rotterdam [Paesi Bassi]
- Schio [Vicenza]
- Tolosa [Francia]
- Vienna [Austria]

Collezione: La Stampa

Citazione: Enrico Castelnuovo, “Il gusto è mobile,” Enrico Castelnuovo sulla carta stampata. La Stampa e Il Sole 24 Ore, ultimo accesso il 17 dicembre 2024, https://asut.unito.it/castelnuovo/items/show/80.