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Titolo: Troppa anima nella Gioconda

Descrizione: Castelnuovo ripercorre i giudizi sferzanti espressi da Roberto Longhi sull'opera di Leonardo e in particolare sulla Gioconda, tra anni Dieci e anni Cinquanta, contestualizzando il suo pensiero nel panorama della critica coeva – Bernard Berenson, Paul Valéry, Sar Peladan, Walter Pater – che celebrava sotto vari aspetti il genio del pittore.
L’intervento è pubblicato in Leonardo, genio a Venezia, supplemento a «La Stampa» edito in occasione della mostra Leonardo & Venezia (Venezia, Palazzo Grassi: 23 marzo-5 luglio 1992).

Autore: Enrico Castelnuovo

Fonte: Leonardo, genio a Venezia, pp. 24-26 (supplemento a La Stampa)

Editore: La Stampa; digitalizzazione: Archivio storico dell'Università di Torino (2023)

Data: 1992-03-26

Gestione dei diritti: Licenza Creative Commons
Quest'opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione 4.0 Internazionale

Relazione: Inventario del fondo Enrico Castelnuovo, unità archivistica «La Stampa» (Archivio storico dell'Università di Torino)

Formato: application/pdf

Identificatore: Stampa_76

Testo: Leonardo, genio a Venezia, pp. 24-26
(supplemento a «La Stampa» del 26 marzo 1992)



Longhi primo nemico del capolavoro

Troppa anima nella Gioconda



Le vicende rocambolesche del furto e ritrovamento della Gioconda fecero gran rumore negli anni felici che precedettero la prima guerra mondiale. Un giovane critico italiano destinato a un grande avvenire, Roberto Longhi, si ispirò all'avvenimento per sferrare, sulle pagine del primo numero del 1914 de La Voce, un attacco iconoclasta già nel titolo: Le due Lise. Dopo aver sacrilegamente paragonato Monna Lisa alla Lise di un pittore le cui tele aveva appassionatamente ammirato alla Biennale del 1910, Pierre-Auguste Renoir, dopo aver criticato aspramente le qualità pittoriche, plastiche, compositive, di movimento del ritratto di Leonardo anticipando (la Gioconda con i baffi di Marcel Duchamp è del 1920) tante avanguardie del Novecento nel demistificarne la gloriosa e classica banalità e aver invece invitato a guardare come pittura e solo come pittura «questa signora semplice e alla mano, che nell'anno 1867 si soffermava in un recesso della foresta di Fontainebleau» terminava in modo provocatorio: «A vedere questa seconda Lisa, rubata e ritrovata, dieci persone non si muoverebbero. Pure, fra le due, essa sola vale nell'Arte. È di Renoir».
Le due Lise non furono soltanto un giovanile episodio di teppismo avanguardistico ma rivelavano qualcosa di più profondo e durevole. Un sospetto, una diffidenza che in qualche modo allontanarono il più geniale storico che l'arte italiana abbia avuto in questo secolo da colui che è generalmente riconosciuto come il più geniale dei suoi protagonisti. Quali le ragioni di questa lunga diffidenza? Una certa parte andrà attribuita al distacco che Longhi manifestò sempre nei riguardi di alcuni dei personaggi più canonici e canonizzati, di alcuni dei nomi più celebri e celebrati dell'arte italiana, non solo di Leonardo, ma anche di Raffaello e di Michelangelo. Non si trattò esclusivamente di un atteggiamento iconoclasta maturato ai tempi della sua giovinezza futurista. Chi, come Longhi, era intento a ricostruire una storia dell'arte in Italia basata su una linea di sviluppo diversa da quella generalmente accettata e posta in altra prospettiva, chi intendeva proporre un nuovo canone con nuove «persone prime» doveva necessariamente alterare la scala dei valori consacrati e stabiliti. Ma c'era dell'altro.
Il giovane Longhi, che, come più avanti si vedrà, rivendicava in quel tempo una completa autonomia dell'arte dalla vita, riconosceva nei saggi di Bernard Berenson, sui pittori italiani del Rinascimento usciti tra il 1894 e il 1897, che lo avevano tanto affascinato da spingerlo a proporre al loro celebre autore di volgerli in italiano, la strada per una critica figurativa che si basasse solo ed esclusivamente sui puri fatti artistici evitando qualsiasi equivoco, qualsiasi psicologismo, qualsiasi commistione o commozione. In questi testi leggeva delle proposte nuove che contro le tante mescolanze e ibridazioni cui era stata sottoposta la critica d'arte nel tempo del positivismo – con la storia, la geografia o la psicologia – rivendicavano una lettura esclusivamente formale, esclusivamente interna delle opere d'arte.
Di Leonardo che apprezzava altamente e che considerava «il più geniale degli eccentrici» così Berenson aveva scritto nel '96: in «The Fiorentine Painters of the Renaissance»: «La pittura significò per lui tanto poco da dover considerarla soltanto un modo d'espressione adoperato eventualmente da un uomo di genio universale, quando non aveva occupazioni più gravi, e quando soltanto la pittura gli serviva ad esprimere ciò che altre cose non avrebbero potuto: il più alto significato spirituale attraverso il significato materiale più alto. Grande era la sua padronanza del mestiere; ma il suo istinto dei significati talmente la eccedeva, da obbligarlo ad insistere all'infinito sulle sue opere, affannandosi a rendere significati che egli sentiva ma che la mano non riusciva a tradurre...». In quegli stessi anni (1895) Valéry vedeva incarnarsi in Leonardo il simbolo dei poteri superiori della coscienza e della ricerca intellettuale, e il Sar Peladan ne esaltava il genio esoterico e teosofico, mentre Walter Pater era affascinato da una lettura in chiave meramente psicologica della sua opera.
Altro non volevano essere le parole di Berenson se non un elogio di Leonardo e tuttavia ad un rigoroso assertore della «pittura-pittura» come Longhi questa subordinazione della pittura ad altre esigenze, questa universalità che ai suoi occhi si risolveva nelle confuse ibridazioni care ai positivisti, sembrava una gravissima pecca, per non parlare delle letture psicologiche dei simbolisti e di Pater, o degli esoterismi arcani dei Rosacroce.
Così nel 1914 spiegava ai suoi studenti del liceo Tasso (in quelle dispense che intitolò Breve ma veridica storia della pittura italiana) come Leonardo facesse appello a «finezze di trapassi psichici» che «la muta psicologia espressa dal pittore» non può ammettere a rischio di ricercare effetti propri alla sfera della vita e non a quella della pittura: «Di fronte alla psicologia e alla bellezza di quest'angelo (quello all'estrema sinistra nel Battesimo di Cristo del Verrocchio) entrano in campo i nostri gusti personali che non sono gusti ma solo affetti e simpatie: quest'angelo ci piacerà o no a seconda che ci piacerebbe o meno incontrarlo nella vita; ma una figura di Botticelli piace a tutti quelli forniti di gusto figurativo perché è imparagonabile con la vita e cioè priva di ogni scoria psicologica particolare». E nello stesso anno dalle pagine de La Voce, nell'articolo su Le due Lise per l'appunto, fulminava Leonardo scagliandosi violentemente «Contro quest'uomo che in un periodo di cultura empirica ci procurò la beata illusione del genio universale ed ora ci fa l'impressione di un anticipo di Larousse – che ha usato l'arte in pro di molte cose, scienze e zibaldoni di scienza e mai in pro di se stessa – ...contro quest'uomo la cui sola caratteristica sicura fu quella della confusione dei fini e che perciò difficilmente poteva comprendere il più disinteressato fra di essi – l'arte – contro quest'uomo-crusca di cui tutti si sono potuti occupare, persino Luigi Luzzatti...».
Un atteggiamento di cui si trova ancora traccia in quei mitici e non poco goliardici «Inni pittorici» databili negli Anni Quaranta (che, diversamente da Umberto Eco, Longhi non pubblicò, sì che devo citarli a memoria) in cui sull'aria di qualche marcetta del regime, veniva sinteticamente caratterizzando alcuni eroi della pittura italiana. Quello su Leonardo –- se non ricordo male – cominciava così: «Leonardo grande mago nazionale / Pittor scultore ed architetto ancora / purtroppo non sapette realizzare / ciò che l'ingegno suo splendidamente progettò» per concludere sfrontatamente irridendo a una frase spesso citata e celebrata come anticipazione del cannocchiale: «Fo occhiali per veder la luna grande / e il nostro grande duce tu vedrai più grande ancor».
Con gli anni le grandi avversioni si placano, ma resta il sospetto per quelle che erano avvertite come delle contraddizioni, delle ambiguità, sì che molto tempo dopo, nel 1952, in pieno cinquecentenario e in mezzo al risuonare di trombe e di tamburi celebrativi, Longhi intitolò un po' sottotono, Difficoltà di Leonardo, un suo meditato intervento. Ciò che lo insospettiva era soprattutto la ricezione, il mito che di certe posizioni di Leonardo si era nutrito, che da esse si era sviluppato, in particolare a proposito del problema «luce ombra» e quindi del celebre sfumato. Ancora una volta ci si imbatte in una critica, non tanto velata, alle contraddizioni, alle soluzioni extrapittoriche: «All'uopo serviva la tradizione privilegiata e fiorentissima del "chiaroscuro" astratto in "lume universale"; né Leonardo si sentiva di rinunciarvi affatto. Pensò così di annuvolarlo, di smorzarlo, di sfumarlo; un accomodamento che, su quella base, non avrebbe potuto trovar la sua forma propria, ma soltanto indicare allusivamente un desiderio di evasione sentimentale, poetica, in un mondo serotino, crepuscolare, in un "aer bruno", in quella "certa oscurità" di cui parla il Vasari; e rimase così in ambigua polemica col suo primo genio per la perspicuità vitale e persino con i suoi riti di classico equilibrio. Fu allora che i suoi pensieri e le sue figure si affacciarono, velati e fumosi, talora anche un po' macabri, dalle grotte delle Prealpi lombarde già esplorate da Leonardo speleologo; e non sembrerà perciò punto strano che proprio quest'ultima escogitazione dovesse più di tutto il resto, gradire al romanticismo e al decadentismo del secolo scorso, in cerca assai più di misteri che di spiegazioni nette».
Ed ecco rievocata la ricezione «fin de siècle» di Leonardo, quella dei Rosacroce, quella dei simbolisti, degli esteti come Pater, ecco pensieri e figure che si affacciano «velati e fumosi» dalle grotte lombarde per essere particolarmente graditi, a chi è «in cerca assai più di misteri che di soluzioni nette». La chiusa equanime del testo rievoca ancora una volta drammi, contraddizioni, difficoltà, ma questa volta senza invettiva nei confronti del «grande scrutatore»: «Qui la proposta di un chiarimento in termini di umanità e di cultura, mentre accentua il contrasto interno dell'uomo, nulla toglie all'altezza della crisi mentale durata dal grande scrutatore e avviatore di "macchine vitali", costantemente impresse dalla sua "spirituale potenzia"».
Enrico Castelnuovo

Verrocchio e bottega «Battesimo di Cristo» particolare; l'angelo di sinistra è del giovane Leonardo (Firenze, Uffizi); Un insolito ritratto di Roberto Longhi per mano di P.P. Pasolini

NOMI CITATI

- Berenson, Bernard
- Botticelli, Sandro
- Duchamp, Marcel
- Eco, Umberto
- Leonardo da Vinci
- Longhi, Roberto
- Luzzatti, Luigi
- Michelangelo
- Pasolini, Pier Paolo
- Pater, Walter
- Péladan, Joséphin [Joseph-Aimé]
- Raffaello
- Renoir, Pierre-Auguste
- Rosacroce [Antico e Mistico Ordine della Rosacroce]
- Valéry, Paul
- Vasari, Giorgio
- Verrocchio, Andrea del [Andrea di Michele]
- Voce [La]


LUOGHI E ISTITUZIONI CITATI
- Firenze
o Galleria degli Uffizi [Gallerie degli Uffizi]
- Fontainebleau [Francia]
o Foresta di Fontainebleau
- Roma
o Liceo-Ginnasio “Torquato Tasso”

Collezione: La Stampa

Citazione: Enrico Castelnuovo, “Troppa anima nella Gioconda,” Enrico Castelnuovo sulla carta stampata. La Stampa e Il Sole 24 Ore, ultimo accesso il 17 dicembre 2024, https://asut.unito.it/castelnuovo/items/show/92.