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Titolo: I milord innamorati delle statue romane

Descrizione: Intervento sul rapporto con l’arte antica da parte di artisti e collezionisti durante il XVIII secolo, a partire dai risultati messi in luce da Francis Haskell e Nicholas Penny nel volume Taste and the Antique. The Lure of Classical Sculpture, 1500-1900 (New Haven, Yale University Press, 1981) e nella mostra The Most Beautiful Statues. The Taste for Antique Sculpture, 1500-1900 (Oxford, Ashmolean Museum: 26 marzo-10 maggio 1981).
Una copia del volume e del catalogo della mostra, al pari curata da Haskell e Penny, sono presenti nel fondo librario di Castelnuovo, conservato dalla Biblioteca storica d’Ateneo “Arturo Graf”.

Autore: Enrico Castelnuovo

Fonte: La Stampa, anno 115, n. 105, p. 3

Editore: La Stampa; digitalizzazione: Archivio storico dell'Università di Torino (2023)

Data: 1981-05-05

Gestione dei diritti: Licenza Creative Commons
Quest'opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione 4.0 Internazionale

Relazione: Inventario del fondo Enrico Castelnuovo, unità archivistica «La Stampa» (Archivio storico dell'Università di Torino)

Formato: application/pdf

Identificatore: Stampa_12

Testo: «La Stampa» – Anno 115, n. 105, Martedì 5 maggio 1981, p. 3



Storia di un gusto durato secoli

I milord innamorati delle statue romane



Per secoli, e fino all’inizio dell’Ottocento, nessuna opera d’arte poté rivaleggiare, agli occhi dei conoscitori, con le sculture antiche, per lo più repliche di età romane di prototipi greci. Sovrani e potenti si disputavano non tanto gli originali, irreperibili sul mercato e concentrati tutti a Roma, nel cortile del Belvedere in Vaticano, nel Palazzo dei Conservatori in Campidoglio, in Palazzo Farnese, a Villa Medici, a Villa Borghese (e più tardi, con lo spostarsi delle collezioni, anche a Firenze e a Napoli), ma le copie commissionate ad artisti moderni o, addirittura, i calchi.
Un inventario spagnolo della fine del Seicento mostra che i calchi della Flora e dell’Ercole Farnese erano più apprezzati, anche sul piano economico, dei ritratti di Velasquez, e celebrate erano le raccolte di calchi di Palazzo Farsetti a Venezia o dell’elettore palatino a Mannheim. Oggetti che ai nostri giorni giacciono dimenticati e coperti di polvere erano allora unanimemente ammirati.
Nel Settecento il fenomeno prese poi forme assai più vaste: se Francesco I nel Cinquecento aveva richiesto copie per Fontainebleau, se Luigi XIV era riuscito a portare nei giardini di Versailles qualche scultura antica, guadagnando agli occhi dei contemporanei un immenso titolo di gloria, al tempo del Grand Tour – il viaggio nella patria delle arti che, da quando Lord Shaftesbury aveva rivelato la qualità morale del bello, marcava di un sigillo supremo l’educazione del gentiluomo – mostrare in qualche modo il proprio rapporto con la scultura dell’antichità fu quanto di più chic e di meritorio si potesse fare.
Così i milords che giungevano a Roma, tappa suprema di quel viaggio iniziatico, posavano per Pompeo Batoni, inventore di un nuovo tipo di ritratto che presentava nello sfondo una statua antica, o un vaso, o un monumento, cercavano di procurarsi repliche in bronzo e in marmo, o anche sigilli e gemme in paste vitree che riproducessero le fatture ammirate di questa o quella scultura: i Lottatori, l’Arrotino, lo Spinario, l’Apollo del Belvedere, l’Ercole Farnese, il Meleagro, l’Antinoo, la Venere de’ Medici, il Laocoonte, il Gladiatore, il Busto del Belvedere, le varie Flore, Cleopatre (o piuttosto Arianne), Palladi, Niobidi, o quelle dei due divini gemelli che si ergevano con i loro destrieri di fronte al Quirinale, alla sommità della collina chiamata appunto Monte Cavallo e che si credevano opere di Fidia e di Prassitele.
Erano nati e si erano sviluppati a Roma ateliers specializzati di copisti, di restauratori, di intagliatori in pietre dure, di incisori, di fonditori in bronzo, che pubblicavano repertori e cataloghi, autentici campionari della loro produzione. Per ornare i giardini del suo castello di Blenheim, presso Oxford, la «Versailles inglese», il Duca di Malborough ordina copie in bronzo delle più celebri sculture antiche, così fa il Duca di Northumberland per la hall di Syon House presso Londra, così avviene altrove in Inghilterra, in Francia, in Spagna, in Germania e finanche in Russia nelle residenze imperiali di Pavlosk o di Peterhof.
Una bella mostra, «The Most Beautiful Statues», allestita all’Ashmolean Museum di Oxford a celebrare la pubblicazione di un libro di Francis Haskell e Nicholas Penny (Taste and the Antique, Yale University Press, 1981), evoca con provocante precisione questa vicenda e questi atteggiamenti che ci sono oggi tanto lontani. Di Francis Haskell, professore a Oxford, il pubblico italiano conosce la traduzione, pubblicata da Sansoni del gran volume Mecenati e pittori (1966), uno studio sui rapporti tra committenti collezionisti e artisti in Italia nell’età barocca, e la stimolante raccolta di saggi stampata con molta eleganza dalla Spes di Firenze sotto il titolo Arte e Linguaggio della Politica (1978). Non è stato invece tradotto, ed è un peccato, un altro libro affascinante, Rediscoveries in Art (1976) che illustra l’atteggiamento dell’Ottocento verso l’arte del passato.
Questa mostra – e questo nuovo libro – affrontano un problema rivelatore per la storia del gusto. Sapevamo di certo quanta fosse stata l’ammirazione per le statue antiche, ma la sterminata foresta delle mediazioni in varie tecniche, materiali e dimensioni, con aspetti che oggi possono sembrare curiosamente kitsch, restava sconosciuta se non agli specialisti o addirittura disprezzata come ciarpame accademico. Tacciono troppo spesso per noi i riferimenti che per i contemporanei à la page erano fin troppo evidenti, si tratta innanzitutto di ricostruire il corpus delle opere utilizzate come modelli formali e repertorio di gesti e atteggiamenti per avvertire, per esempio, come dietro l’immagine del Commodoro Keppel di Reynolds emerga lo schema dell’Apollo del Belvedere.
Johann Zoffany, l’artista tedesco che fece furore a Londra per le sue «conversation piece», rappresentò spesso la collezione, in gran parte di calchi, di un Lord conoscitore, o la visita a un tempio della scultura antica come la Tribuna degli Uffizi; caricaturisti come Rowlandson mostrarono affettati gentiluomini che si arrampicavano su trespoli o si inginocchiavano nella polvere per raccogliere e annotare le proporzioni divine delle statue.
L’antico era divenuto lo strumento principe per l’educazione degli artisti. Carlo Maratta – ce lo racconta il suo biografo Pietro Bellori – disegnò per un illustre amatore un’accademia con un maestro di prospettiva e studiosi di anatomia circondati da allievi e sotto il motto «Tanto che basti», mentre nella parte superiore del foglio, sotto un portico dove erano riuniti l’Ercole Farnese, la Venere de’ Medici e l’Antinoo di Belvedere si leggeva: «Mai a bastanza», «contenendosi nelle buone statue l’esempio e la perfezione della pittura con la buona imitazione scelta della natura».
Per secoli, dal Cinque al Settecento, un ristretto numero di statue romane esercitò un’influenza inimmaginabile, fu modello e pietra di paragone, oggetto dello studio metodico e affascinato degli artisti, del desiderio di collezionisti e committenti, riuscendo a realizzare l’incondizionata ammirazione di pubblici diversi, papi e re, lords e cardinali, imperatori e borghesi, come erano quelli rappresentati da Joseph Wright of Derby, il pittore della rivoluzione industriale, riuniti in intenta contemplazione a lume di candela di una copia a scala ridotta del Gladiatore Farnese. Gli artisti avvertivano di avere di fronte modelli inarrivabili.
Il visionario Füssli, svizzero anglicizzato, disegnò a Roma una figurina col capo reclinato, sovrastata da un gigantesco piede e da una mano marmorei, resti di un colosso imperiale che schiacciano chi li avvicina con le loro stesse irraggiungibili dimensioni, come il misterioso e smisurato elmo che nelle prime battute del Castello di Otranto di Walpole — celebre capostipite del romanzo nero scritto negli stessi anni — cade dal cielo nella corte del maniero uccidendo il figlio del feudatario.
Quando Napoleone si impadronì dell’Italia dettò condizioni precise per far convogliare a Parigi centinaia di pezzi antichi, dall’Apollo di Belvedere, al Laocoonte; ai Cavalli di San Marco. Da Gioacchino Serangeli, un allievo di David che si installerà più tardi a Torino al servizio di Carlo Felice, si fece ritrarre nelle sale di antichità del Louvre, mentre passa in rassegna i generali dell’Armée, con il Laocoonte sullo sfondo. Medaglie che portano incisa sul recto la sua immagine mostrano al verso i tesori radunati a Parigi, la Sala dell’Apollo, quella del Laocoonte. Patente di gusto l’antico era — e sarà — patente di legittimazione.
Poi, dopo il brillio tanto intenso della fine del Settecento, il fulgore delle antiche statue romane cominciò ad affievolirsi con la conoscenza dei primi originali greci di cui già Winckelmann e Mengs avevano postulato l’esistenza. L’arrivo in Inghilterra dei marmi del Partenone convogliati da Lord Elgin fu un momento cruciale. Füssli, l’esaltato ammiratore di Roma, non riusciva a staccarsi dai rilievi ateniesi mormorando: «The Greeks were Gods», «The Greeks were Gods». Sir Thomas Lawrence il celebrato ritrattista che possedeva una grande collezione di calchi scriveva al comitato della Camera dei Comuni che doveva decidere sull’acquisto dei marmi Elgin: «Ho io stesso un’ottima collezione dei migliori calchi tratti dalle statue antiche, ma tornando a casa sono stato colpito dalla differenza che essi mostravano con i marmi Elgin». Il gusto neo-greco (e quello neo-gotico) battevano alla porta; una lunga stagione si avviava alla fine.
Enrico Castelnuovo

NOMI CITATI

- Anthony Ashley-Cooper, III conte di Shaftesbury
- Batoni, Pompeo
- Bellori, Pietro
- Carlo Felice di Savoia, re di Sardegna
- David, Jacques-Louis
- Fidia
- Francesco I, re di Francia
- Füssli, Johann Heinrich
- Haskell, Francis
- Hugh Percy, I duca di Northumberland
- John Churchill, I duca di Marlborough
- Keppel, Augustus
- Lawrence, sir Thomas
- Luigi XIV, re di Francia
- Maratti, Carlo
- Mengs, Anton Raphael
- Napoleone I, imperatore
- Penny, Nicholas
- Prassitele
- Reynolds, sir Joshua
- Rowlandson, Thomas
- Sansoni
- Serangeli, Gioacchino Giuseppe
- SPES
- Thomas Bruce, VII conte di Elgin
- Velázquez, Diego
- Walpole, Horace
- Winckelmann, Johann Joachim
- Wright of Derby, Joseph
- Yale University Press
- Zoffany Johann


LUOGHI E ISTITUZIONI CITATI
- Atene,
o Partenone
- Città del Vaticano,
o Cortile del Belvedere
- Firenze
o Galleria degli Uffizi [Gallerie degli Uffizi]
▪ Tribuna
- Fontainebleau [Francia]
o Castello di Fontainebleau
- Londra [Regno Unito]
o Syon House
- Mannheim [Germania]
- Napoli
- Oxford [Regno Unito]
o Ashmolean Museum
o Università di Oxford
- Parigi
o Musée du Louvre
- Pavlovsk [San Pietroburgo, Russia]
o Reggia di Pavlovsk
- Peterhof [San Pietroburgo, Russia]
o Reggia Peterhof
- Roma
o Palazzo dei Conservatori
o Palazzo del Quirinale
o Palazzo Farnese
o Villa Borghese
o Villa Medici
- Torino
- Venezia
o Ca’ Farsetti
- Versailles [Francia]
o Castello di Versailles
▪ Giardini
- Woodstock [Oxford, Regno Unito]
o Blenheim Palace

Collezione: La Stampa

Citazione: Enrico Castelnuovo, “I milord innamorati delle statue romane,” Enrico Castelnuovo sulla carta stampata. La Stampa e Il Sole 24 Ore, ultimo accesso il 17 dicembre 2024, https://asut.unito.it/castelnuovo/items/show/25.